FILOBIANCONERO RACCONTA FRANCO CAUSIO: IL BARONE
A partire dal
primo dopoguerra, Torino fu l’epicentro di un clamoroso flusso migratorio,
richiamando a sé un enorme numero di uomini e donne provenienti dalla fame e
dalla miseria del meridione italiano, allettati dalle possibilità lavorative
offerte dalla Fiat, l’azienda della famiglia Agnelli che rese Torino non solo la
città dell’industria ma una vera e propria capitale dell’auto.
Con la stazione
Torino Porta Nuova che ogni giorno vedeva giungere nel capoluogo piemontese un sempre
maggior numero viaggiatori del “Treno del Sole”, mezzo di locomozione che
partendo dalla Sicilia e risalendo tutta la penisola in poco meno di
ventiquattr’ore arrivava in Piemonte.
La maggior parte
di essi era diretta verso la catena di montaggio, attratta dal posto fisso e
dello stipendio sicuro e garantito di “mamma Fiat”.
Ma c’era anche
chi emigrava da promessa del calcio. Giovani talenti cresciuti a pane e pallone
nei polverosi campi di periferia del sud Italia piuttosto che nei vicoletti
delle loro città, spinti dai loro maestri di calcio piuttosto che da Direttori
Sportivi di lungo corso che su questi ragazzi scommettevano, convincendoli a
cercare di realizzare il loro sogno: diventare calciatori professionisti, e
soprattutto diventare famosi.
E proprio questa
è l’origine della storia di un giovane ragazzo nato a Lecce il primo febbraio
1949 che tentò la grande avventura al Nord grazie a talento, estro, tecnica,
genialità, dribbling, corsa e tiro, dopo aver illuminato i campi del calcio
giovanile della sua Puglia e aver debuttato a soli sedici anni in Serie C, nel
Lecce del suo mentore Attilio Adamo.
Stiamo parlando
di Franco Causio, che arrivò a Torino sponda Juventus nell’estate del 1966
proprio con l’ambizione di diventare un grande calciatore.
Nell’idea di chi
emigra, la città ospitante assume i contorni di una realtà tutta rose e fiori,
ma la quotidianità spesso si discosta da questo utopico ideale. L’inserimento in
ogni nuova realtà è foriero di difficoltà tutt’altro che semplici da superare a
causa delle diverse culture e identità tra gli abitanti del luogo e chi arriva
da fuori. E così fu per questo diciassettenne, per il quale non fu per nulla semplice
ambientarsi in una città fredda, austera e complessa come era la Torino di
quegli anni.
Causio, così come
tutti i ragazzi proveniente da fuori Torino alloggiava nella foresteria
bianconera di Via Susa, alternando allenamenti con la primavera bianconera a
quelli con la prima squadra, nella quale militavano calciatori del calibro di Cinesinho,
Salvadore, Del Sol e Haller. Campioni navigati da cui Causio apprese cosa
significasse giocare nella Juventus, non tanto da un punto di vista tecnico
quanto a livello di stile, comportamento ed educazione fuori dal campo. Così
come a dare tutto in campo, dall’allenamento alla partita, sempre e fino alla
fine.
Ai tecnici
bianconeri piacque subito quel giovane travolgente, incontenibile e dall’intrigante
modo di stare in campo. Causio che non solo faceva cantare il pallone quando lo
aveva tra i piedi ma che dimostrava un carattere e una personalità da veterano.
Elementi che
convinsero Heriberto Herrera il 21 gennaio 1968 a farlo esordire nella massima
serie in maglia bianconera contro il Mantova prima di mandarlo in prestito dapprima
alla Reggina in serie B e poi a Palermo in A per farsi l’esperienza necessaria prima
di tornare alla casa madre con un ruolo di primo piano.
Ritorno sotto la
Mole per il “Barone” (soprannome che gli fu affibbiato dal giornalista de “La Stampa”
Fulvio Cinti) che avvenne nell’estate del 1970, assieme a Gianluigi Savoldi e
Roberto Bettega. Sei buone stagioni, le sue, con la svolta che ci fu nella
stagione 1976/’77 quando sulla panchina della Juventus approdò Giovanni
Trapattoni.
Con il “Trap” che
non poteva prescindere dal “tornante” di destra, giocatore che nel calcio dei
numeri dall’uno all’undici vestiva la maglia numero sette. Il suo compito era
quello di “arare” l’intero out di destra del campo effettuando entrambe le fasi
a mo’ di pendolino. Una vera e propria ala d’attacco con la squadra in possesso
palla che si trasformava in terzino aggiunto non appena la palla la prendevano
gli avversari.
Maglia numero sette
diventata famosa anche per una splendida canzone di un grande cantautore
italiano, Francesco De Gregori, “La leva calcistica della classe ‘68”. Pezzo
che in uno dei suoi frammenti recita: «Il ragazzo si farà, anche se ha le
spalle strette…. quest'altr'anno giocherà, con la maglia numero sette».
Una canzone che
parla di talento, fantasia, creatività: esattamente le peculiarità del Barone.
Causio che “si
fece” eccome, così come abbandonò precocemente le “spalle strette” e su quella
maglia ci costruì un’intera carriera. Pur nascendo come mezzala diventò il più
forte “sette” italiano degli anni Settanta e una delle ali più forti al Mondo. Scatto
tipico dell’attaccante e mente da califfo del centrocampo, il Barone riusciva
ad unire classe ad importanti mezzi atletici. Rapidità, agilità, piedi “brasiliani”,
ambidestrismo, imprevedibilità, capacità di dribbling ubriacante, colpi di
tacco, straordinario cross dalla linea di fondo ed infine ma non per ultima una
grande capacità di calciare in porta dalla distanza sia con conclusioni potenti
che liftati, sia con la palla in movimento che nei calci piazzati.
Uno dei “sette” che
saranno sempre ricordati nella storia del calcio grazie alla capacità che ebbe
nel conferire al ruolo di ala tornante la sua unica impronta fatta di giocate
mai banali, tocchi di gran classe, fantasia e una ricerca costante della
giocata mai fine a sé stessa ma vincente.
Caratteristiche
che lo fecero diventare un pupillo di Giovanni Trapattoni fin dal suo esordio
sulla panchina bianconera. Per il Trap, Causio era l’uomo di classe e fantasia in
un centrocampo composto da guerrieri come Marco Tardelli, Romeo Benetti e Beppe
Furino. Qualità della quale si giovò in particolare la coppia d’attacco bianconera
dell’epoca formata da Boninsegna e Bettega che, grazie ai cross e agli assist del
Barone, segnarono 27 gol in due nelle trenta partite di campionato. Causio che
in quella stagione (1976/’77) conquistò con la Juventus lo scudetto dei record
con 51 punti su 60 disponibili e la Coppa UEFA, ma anche lil primo trofeo
europeo per il club della famiglia Agnelli, la Coppa Uefa.
Parentesi
bianconera che per il Barone durò ininterrottamente per undici stagioni, nelle
quali rappresentò un vero e proprio pilastro portante della squadra
conquistando sei Scudetti, una Coppa UEFA, e una Coppa Italia, prima di cedere
la sua amata fascia destra a giovani come Pierino Fanna e Domenico Marocchino
che si stavano affacciando alla ribalta del grande calcio in maglia bianconera.
Anni nei quali il Barone mise le sue mirabolanti giocate al servizio anche
della causa azzurra, indossando, ovviamente, la maglia numero sette. Uno dei
migliori della spedizione azzurra al Mundial di Argentina ’78 così come fu tra
i ventidue che l’undici luglio 1982 sollevarono al cielo del Santiago Bernabeu
la Coppa del Mondo.
Più studiosi
affermano che le coincidenze altro non siano che una modalità del destino per
consentire alla nostra esistenza di prendere una direzione piuttosto che
un'altra. Ed effettivamente la vita di ognuno di noi è piena di coincidenze: un
messaggio ricevuto proprio mentre stavamo pensando ad una determinata persona, la
soluzione ad un problema che ci attanagliava da tempo, un insight, un sogno che
ci fornisce la risposta alle nostre domande più recondite, piuttosto che un
incontro che cambia la nostra vita.
Per il Barone la
coincidenza più “significativa” della sua vita, almeno così la definirebbe uno
dei padri fondatori della psicanalisi Carl Gustav Jung, avvenne in una partita
a scopone che fece storia. Quella in cui in coppia con Bearzot sfidò Dino Zoff
e l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, sull’aereo che riportava
a casa l’Italia Campione del Mondo del 1982.
Nel gioco dello
scopone c’è una carta che più di ogni altra è importante: il sette. Quella
carta che “guarda caso” determinò il risultato di quella partita con Causio che
in più interviste ha ricordato così quell’iconico momento: «Ero in coppia con
Bearzot, e il presidente con Zoff. Io feci una furbata: calai il sette, pur
avendone uno solo. Pertini lo lasciò passare e Bearzot prese il settebello.
Abbiamo vinto così quella partita.»
Partita vinta grazie
a quella giocata del “Barone” che tanto ha ricordato quelle che Causio ci
regalava sul terreno verde con le sue finte a disorientare l’avversario di
turno. Di norma si trattava di un terzino, quella volta il Presidente della
repubblica italiana.
“Sette” con cui
Causio vinse la partita più rinomata della storia dello scopone, così come con
il sette sulle spalle vinse la scommessa più importante della sua vita, quella
di un diciassettenne partito da Lecce verso Torino con una valigia piena di
sogni, con quest’ultimi diventati realtà.
Un uomo di altri
tempi, lo si potrebbe definire: umile, saggio, carismatico, altruista, con
quell’orgoglio tipico di chi ha iniziato dal basso, dalla gavetta, per arrivare
a raggiungere le vette più alte del mondo, senza mai dimenticare le sue radici
e i veri valori della vita. Un uomo e un calciatore dal perfetto Stile Juve il “Barone”,
un’icona del calcio mondiale degli anni ’70 e primo ’80 del secolo scorso
nonché un grande eroe bianconero.



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