FiloBianconero racconta Giovanni Trapattoni e il suo decennio d’oro bianconero
Quattordici
trofei in tredici stagioni sulla panchina della Juventus: sei scudetti, una
Coppa dei Campioni, due Coppe Italia, una Coppa Intercontinentale, due Coppa
Uefa, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Europea.
Bottino che lo consacrerà
come il tecnico più vincente nella storia bianconera.
Stiamo parlando
di Giovanni Trapattoni, per tutti il “Trap”.
Nato il 17 marzo
1939 a Cusano Milanino, quartiere della prima cintura urbana di Milano, quinto
figlio di una famiglia di origini operaie emigrata negli anni della Seconda
guerra mondiale nell'hinterland milanese da Barbata, piccolo paese della Bassa Bergamasca,
il giovane Trap crebbe nelle complessità e nell’austerità del primo dopoguerra;
a scuola nel periodo ottobre – giugno e garzone nei mesi estivi, ma sempre con
il pallone tra i piedi a fare da minimo comune denominatore alle sue giornate.
Sfera di cuoio che
non mancava mai al piccolo Giovanni, che iniziò a tirare calci prima all'oratorio
San Martino di Cusano per proseguire poi nella società dell'U.S. Cusano
Milanino, alternando studio, allenamenti e lavoro da apprendista tipografo.
Estrazione operaia
dunque quella del Trap, integrata in un contesto proletario, quello
dell’hinterland della grande Milano. Città che, alla pari di Torino,
rappresentò nei primi anni del dopoguerra uno dei principali simboli del
processo di industrializzazione dell’Italia del ‘900.
Basti pensare
che tra il 1928 e il 1942 poco meno di cinquecentomila persone emigrarono dal
profondo Sud Italiano in direzione dei principali poli industriali del Nord
Italia, con Torino, la città della Fiat, la grande industria automobilistica
della famiglia Agnelli, che richiamò sotto la Mole migliaia di persone in cerca
di lavoro.
Lavoratori che
crearono un immediato legame con il club dell’Azienda per la quale prestavano
servizio come modalità più immediata possibile per trovare la migliore integrazione
possibile con la popolazione autoctona.
Con il
metalmeccanico dello stabilimento Mirafiori che proprio grazie al tifo per la Juventus
riuscì a stabilire un importante senso di appartenenza e di comunità sia con
l’Azienda che gli dava lavoro che con tutto il popolo di emigrati che, proprio come
lui, gremiva i quartieri più popolari di Torino. Quartieri zeppi di lavoratori,
per una tifoseria bianconera di matrice proletaria.
Squadra, quella
della famiglia Agnelli, che non a caso nella narrazione popolare viene da
sempre descritta come la provinciale tra le grandi, proprio in virtù di
quest’anima operaia.
Uno spirito che
nel corso degli anni la trasformò da squadra della buona borghesia torinese alla
“Grande Madre” di intere generazioni di tifosi di ogni tipo di estrazione
socioculturale.
Torino e la
Juventus: una città e una squadra con un’anima totalmente sovrapponibile a
quella del Trap, che non a caso trovò proprio a Torino e nella Juventus il suo
habitat naturale.
Giovanni
Trapattoni, tra lo stupore generale, arrivò sulla panchina bianconera
nell’estate del 1976 grazie ad una delle proverbiali intuizioni di Giampiero Boniperti,
ex grande giocatore bianconero diventato nel frattempo Presidente del club
della famiglia Agnelli.
Siamo a metà
anni ’70 del secolo scorso, con Torino non solo città tormentata dal terrorismo
che insanguinava le strade delle principali realtà italiane ma anche in grande eccitazione
dal punto di vista calcistico, considerato che nel capoluogo piemontese convivevano
la Juventus e il Torino, il top del calcio italiano dell’epoca.
Con il Torino di
Gigi Radice che nella stagione 1975/76 conquistò il suo settimo scudetto al
fotofinish, con due sole lunghezze di vantaggio proprio sulla Juventus allenata
da Carlo Parola.
Un’ignominia per
Giampiero Boniperti, piemontese d’acciaio, portatore di un DNA vincente e totalmente
refrattario alla sconfitta, anche quando si dilettava giocando a tombola con i
nipoti la sera di Capodanno.
Un visionario, quest’ultimo,
che ebbe la lungimiranza di capire come il grandioso progetto di rinascita di
una Juventus arrivata alla fine di un ciclo doveva passare proprio attraverso quel
giovane tecnico di Cusano Milanino: allenatore che lo aveva letteralmente
conquistato pur avendo nel suo curriculum solo una breve parentesi sulla
panchina del Milan.
Il massimo
dirigente bianconero contattò un esterrefatto Trapattoni, che tutto si sarebbe immaginato
tranne che in quell’estate gli potesse venire offerta una panchina così
prestigiosa.
La leggenda
narra che i due si incontrarono in un motel tra Torino e Milano, con il tecnico
che senza un minimo di esitazione, da vero predestinato della panchina, accettò
la succulenta offerta rinunciando alla conduzione tecnica dell’Atalanta, club
orobico di serie B con il quale Il Trap era ad un passo dalla firma.
Un uomo,
Trapattoni, cresciuto con un’idea del mondo e delle cose basata sul sudore, sul
guadagnarsi il successo giorno dopo giorno, attraverso il lavoro e il faticoso
impegno quotidiano.
Elementi,
questi, che faranno da filo conduttore a
tutte le squadre da lui guidate, con le sue tante vittorie costruite proprio su
tali principi, oltrechè sul talento dei suoi calciatori.
Esattamente come
nel suo esordio sulla panchina bianconera, stagione 1976/77, quando Trapattoni con
i soli rinforzi di Benetti e Boninsegna, gettando nella mischia due giovani di
belle speranze quali Antonio Cabrini e Marco Tardelli, miscelando dunque con
grande sgancia calciatori maturi di giovani fiduciosi, conquistò il suo primo
scudetto in bianconero con 51 punti sui 60 disponibili.
Con capitan
Furino sugli scudi, assistito non solo dagli esperti Antonello Cuccureddu, Francesco
Morini, Franco Causio (sontuoso tornante di destra), Roberto Bettega, “Bonimba”
Boninsegna, ma anche da giovani che faranno la storia bianconera negli anni a
venire quali Antonio Cabrini, Claudio Gentile, Gaetano Scirea e Marco Tardelli.
Il primo tra i
sei scudetti che il Trap conquistò sulla panchina bianconera.
Il secondo in
ordine cronologico, il diciottesimo per la Juventus, fu quello della stagione successiva,
1977/78, nella quale Boniperti riconfermò il gruppo campione d’Italia della
stagione precedente.
Nucleo a cui
aggiunse il talentuoso centrocampista Vinicio Verza, la giovane ala Pierino
Fanna (destinato a raccogliere l’eredità di Franco Causio sulla fascia destra)
e un giovane attaccante del Cagliari Pietro Paolo Virdis, noto come il primo
giocatore della storia ad aver nicchiato e non poco prima di accettare la corte
della Signora.
Campionato non esaltante
come il precedente per la banda del Trap, che se lo aggiudicò mettendo a segno 44
punti, con la sola outsider Lanerossi Vicenza guidata da Paolino Rossi a
cercare di tenere il passo dei bianconeri, non particolarmente spettacolari ma
solidi, quadrati e capaci di rimediare una sola sconfitta in trenta gare di
campionato,
Una squadra dotata
di una perfetta velocità di crociera grazie a serietà, lavoro, impegno e il
famoso «stile» Juventus, che proprio in quegli anni incominciò a far parlare da
sé.
Un’organizzazione
societaria perfetta che non tollerava errori da parte dei propri tesserati, abbinata
ad una capacità più unica che rara di saper lottare sul terreno verde fino alla
fine di ogni gara.
Un magnifico
connubio di forza, tradizione e oculata capacità di ringiovanimento, che costituì quella perfetta macchina da
guerra composta, solo per citarne alcuni, da Dino Zoff, Roberto Bettega, il Barone
Franco Causio, “schizzo” Tardelli, l’implacabile francobollatore Claudio Gentile,
il “bell’Antonio” Cabrini, il «vecchio» Boninsegna (dato dai più per bollito ma
ancora vero e proprio killer d'area di rigore) così come da un altro grande
vecchio, il mediano d’acciaio Romeo Benetti.
Una vera e
propria rarità figlia della saggezza, del senso del dovere e del lavoro, considerato
come principale strumento di dignità di ogni uomo.
Una serie di
elementi che da sempre costituiscono il fulcro del sistema valoriale dei piemontesi.
Mai il passo più
lungo della gamba, piedi sempre ben ancorati al suolo e voglia di costruire
qualcosa di grande, un mattoncino dietro l’altro.
Queste le
principali caratteristiche che hanno consentito alla Juventus di creare il suo impero,
e non il potere economico della famiglia Agnelli, come invece sovente affermato
dai suoi tanti detrattori.
Il terzo scudetto
targato Trapattoni arrivò nella stagione 1980/81, quella in cui il calcio
italiano riaprì le frontiere ai calciatori stranieri. La Signora puntò su una
mezzala irlandese, Liam Brady, geometra mancino del centrocampo che aveva
colpito gli scout bianconeri nella semifinale di Coppa delle Coppe giocata
nell’aprile 1980 con la maglia dell’Arsenal proprio contro la Juventus. Squadra
che fu completata con una campagna acquisti al risparmio incentrata sul
difensore Carlo Osti e promuovendo in prima squadra dai due gioiellini della
primavera: la punta “Nanu” Galderisi e il roccioso difensore Massimo Storgato.
Con lo scudetto
che ancora oggi viene ricordato per il celeberrimo gol-non-gol di Turone,
annullato dall'arbitro Bergamo per fuorigioco in un Roma Juventus disputatosi il
10 maggio 1981 allo stadio Olimpico di Roma, con la partita che terminò con un
pareggio a reti inviolate.
Episodio,
quest’ultimo, che spianò la strada per il titolo di Campioni d’Italia alla Juventus
conquistato con soli due punti di vantaggio proprio sulla Roma del “barone”
Niels Liedholm anche grazie alle vittorie ottenute nelle ultime due giornate di
campionato entrambe per uno a zero.
La prima al San Paolo
di Napoli grazie ad un’autorete di Guidetti e la seconda il 24 maggio 1981 al
Comunale di Torino con gol di Antonio Cabrini.
Il suo quarto
scudetto, il Trap lo portò a casa nella stagione 1981/82. Juve che, da squadra
campione uscente, realizzò la sua solita campagna acquisti all’insegna dell’austerity,
una politica sportiva particolarmente cara a Giampiero Boniperti.
Acquistò il
promettente mediano sette polmoni Massimo Bonini, riportò a Torino Pietro Paolo
Virdis per tenere caldo il posto allo squalificato Rossi Paolo Rossi, e
contestualmente dopo undici entusiasmanti stagioni si separò da uno dei suoi
giocatori simbolo, quel Franco Causio noto come “Il Barone”, che nel frattempo
aveva traslocato le sue finte e i suoi cross sul prato verde di Udine.
Con un undici
base che prevedeva Zoff tra i pali, Gentile terzino destro bloccato, Brio
stopper, Scirea libero e Antonio Cabrini terzino di spinta a sinistra. Un
centrocampo con Liam Brady in regia con ai suoi fianchi due centrocampisti di
grande sostanza quali Tardelli e Bonini, e un attacco a tre formato dai due
esterni Marocchino e Fanna e Virdis terminale d’attacco.
Con quest’ultimo
rimpiazzato più volte dal giovane Nanu Galderisi, giovane centravanti della primavera
bianconera a cui spesso il Trap dovette fa ricorso per sopperire alle carenze
della sua prima linea a causa sia del grave infortunio che mise al tappeto per
buona parte della stagione Roberto Bettega sia per la squalifica di Paolo Rossi
relativa al caso Calcio Scommesse.
A sorpresa quell’anno
la maggior competitor degli uomini del Trap fu l’ambiziosa Fiorentina del Conte
Pontello.
Viola che rinforzarono
un già buon organico composto da capitan Giancarlo Antognoni, dal portiere
Giovanni Galli, dal terzino Contratto, dal campione del Mondo Daniel Bertoni, con
gli acquisti del granitico Pietro Vierchowod del giovane promettente
centrocampista Daniele Massaro, del metronomo Eraldo Pecci e del bomber ex
Torino Ciccio Graziani. Gruppo che, affidato al tecnico Picchio De Sisti, tornò
a lottare per lo scudetto dopo oltre un decennio.
Fu uno straordinario
testa a testa quello tra i bianconeri e i gigliati, con le due compagini che si
presentarono all’ultima gara di campionato appaiate a 44 punti. Giornata nella
quale i fiorentini non riuscirono ad avere la meglio su un volitivo Cagliari in
piena lotta salvezza; a differenza della Juve che, in quel di Catanzaro, riuscì
a sbloccare il risultato a quindici minuti dal termine con quel gol che gli
consentì di conquistare i due punti necessari per aggiudicarsi il suo ventesimo
titolo, quello della seconda stella.
Rete realizzata
su calcio di rigore dall’irlandese Brady, straordinario professionista ancor
prima che grande calciatore, che si incaricò di battere quel penalty pur
consapevole di essere stato precocemente giubilato dalla Juventus futura che
nel frattempo aveva deciso di puntare sulla coppia straniera Platini – Boniek.
Il quinto scudetto
della carriera Trapattoni lo fece suo nella stagione 1983/84, quando Gaetano
Scirea ereditò da Beppe Furino i galloni di capitano dei bianconeri.
Un’estate
turbolenta quella del 1983 per i bianconeri, che salutarono due vere e proprie bandiere
del club: Dino Zoff e Roberto Bettega, sostituiti rispettivamente dal giovane
Stefano Tacconi e da Domenico Penzo, punta non dal grande nome ma di buona sostanza
proveniente da ottime stagioni disputate con la maglia del Verona.
A fare la differenza
quell’anno ci pensarono i due stranieri Michel Platini e Zibì Boniek. Con il campione
transalpino che si aggiudicò per la seconda volta consecutiva la classifica
cannonieri della nostra serie A, con un solo golo di scarto sull’ex Flamenco Arthur
Antunes Coimbra, detto Zico, che in quegli anni dispensava magie all’Udinese.
Ed infine, il suo
sesto e ultimo campionato di serie A sulla panchina bianconera, “Giuan” lo agguantò
nella stagione 1985/86, l’ultima del suo decennio d’oro sotto la Mole.
Anno
rivoluzionario a Torino, con la Juventus che cedette una serie di autentici
pilasti della squadra come Zibì Boniek, Paolo Rossi e Marco Tardelli rispettivamente
a Roma, Milan e Inter, sostituendoli con il gioiellino danese Michael Laudrup, il
tuttofare Lionello Manfredonia dalla Lazio e il bomber Aldo Serena.
Una Juventus che,
a dispetto della rivoluzione operata in sede di mercato estivo, partì a razzo
conquistando ben 16 punti nelle prime otto partite. Fieno messo in cascina che
si rivelò particolarmente prezioso per gli uomini del Trap che, accusando un
vistoso calo nella seconda parte di stagione, vennero agganciati in vetta dalla
bella ed efficacie Roma dello svedese Sven-Göran Eriksson.
Giallorossi lanciatissimi
fino ai due clamorosi scivoloni negli ultimi 180 minuti stagionali contro Lecce
e Como, con la Juventus che a differenza dei capitolini nelle ultime due
giornate di campionato riuscì ad avere la meglio sui rossoneri del Milan e
sullo stesso Lecce, aggiudicandosi il campionato con quattro punti di vantaggio
proprio su Toninho Cerezo e compagni.
Stagione nella
quale il club della famiglia Agnelli, l’otto dicembre 1985 a Tokyo, si
aggiudicò anche la Coppa Intercontinentale contro l'Argentinos Juniors del
talento Claudio Daniel Borghi, al termine di una vera e propria battaglia
all’ultimo respiro.
Con il risultato
finale di sei a quattro ai calci di rigore per i bianconeri, dopo che al
termine dei tempi supplementari la gara si era chiusa sul 2-2; con il penalty
decisivo messo a segno da una delle principale icone di questo straordinario
ciclo Trapattoniano, il francese Michel Platini, Le Roi.
Indimenticabile
l'incredulità con la quale il campione francese dovette accettare l’annullamento
di un suo gol da fantascienza, causa un fuorigioco di Aldo Serena.
Irregolarità vista
solo dall’arbitro Volker Roth, con la giacchetta nera tedesca che decretò nulla
la favolosa rovesciata con la quale Le Roi si era fatto beffa del portiere
sudamericano.
Un decennio
straordinario quello di Giovanni Trapattoni sulla panchina bianconera. Scudetti,
Coppe Italia, Coppe Uefa, Coppa delle Coppe con un unico neo: quello
riguardante il cammino delle proprie Juventus nella massima competizione
continentale, l’allora Coppa dei Campioni.
L’esordio nella
massima competizione europea con la Juventus il Trap lo compì nella stagione 1977/78,
arrestando il proprio percorso in semifinale contro il belgi del Bruges.
Coppa dei Campioni
che Trapattoni tornò a disputare con i suoi bianconeri nella stagione 1981/82
facendosi eliminare in un drammatico ottavo di finale da un Anderlecht
tutt’altro che trascendentale.
Serata che costò
non solo un ginocchio ma anche il Mundial ’82 a Roberto Bettega.
Con la sconfitta
più amara che rimase sempre quella della stagione successiva, 1982/83, con i
bianconeri che pur potendo disporre del meglio del calcio europeo dell’epoca, la
sera del 25 maggio 1983 da grandi favoriti gettarono letteralmente al vento la ventottesima
edizione della prestigiosa manifestazione.
Lo fecero
disputando una pessima partita contro un tutto sommato modesto Amburgo, con la
squatra tedesca che si aggiudicò l’incontro grazie ad un gol dalla grande distanza
del suo giocatore più talentuoso, la mezzala Felix Magath, al nono minuto di
gioco.
Finale di Coppa
Campioni che la Juve tornò a giocarsi nella stagione 1984/85, dopo un lungo
cammino incominciato sconfiggendo i finlandesi dell’Ilves Tampere, proseguito con
l’eliminazione degli svizzeri del Grasshoppers agli ottavi di binale, dello
Sparta Praga nei quarti e del temibilissimo Bordeaux dei vari Battiston,
Chalana, Alain Giresse, Jean Tigana e Bernard Lacombe in una combattutissima semifinale
che vide i bianconeri prevalere per 3 - 0 a Torino e soccombere per 2 - 0 in
terra francese.
Finale nella
quale i banconieri trovarono gli inglesi del Liverpool, detentori della Coppa
dei Campioni.
Squadra, il
Liverpool, che la Juventus aveva già sconfitto per 2 - 0 in un gelido 16
gennaio 1985 nella finale di Supercoppa europea grazie ad una gara perfetta,
sugellata da una strepitosa doppietta di Boniek.
Con la Juventus
che grazie a quella vittoria diventò il primo club italiano a portare nella
propria bacheca tale trofeo.
L’epilogo di
quella maledetta edizione della Coppa dei Campioni era previsto il giorno 29
maggio 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles, per una serata che, anziché
diventare una grande festa dello sport, si trasformò in una delle pagine più
nere della storia del calcio.
Il tutto a causa
della follia degli hooligans inglesi, che già prima del calcio d’inizio misero
a ferro e fuoco il vetusto ed inadeguato stadio belga, causando la morte di 39 supporter
della Juventus.
Tifosi che, per scappare
dall’orda barbarica scatenata dai britannici, cercarono rifugio ammassandosi contro
un muro di recinzione dello stadio, il quale, non reggendo l'improvviso carico,
crollò provocando il decesso di 39 persone e il ferimento di altre 200.
Partita che, nonostante
la richiesta della Juventus di non essere disputata, venne comunque giocata su disposizione
dell'UEFA, essenzialmente per motivi di ordine pubblico.
Gara che vide
prevalere per 1-0 gli uomini del Trap grazie ad un penalty messo a segno da
Michel Platini, che portò la Juventus ad essere la prima squadra europea a
conquistare tutte le competizioni per club previste dalla Federazione Europea
Gioco Calcio.
Trofeo tanto sognato
e voluto a Torino quanto impossibile da poter festeggiare a fronte di tutti
quei decessi.
L’ennesimo, per il
tecnico di Cusano Milanino, che pur a fronte del suo straordinario palmares fu
costretto a convivere per tutta la sua carriera con la nomea del difensivista, retaggio
della sua matrice, essendo egli cresciuto alla scuola di Nereo Rocco.
Con “El Paròn”
(il padrone) promotore di quel calcio all’italiana basato sul cosiddetto
“catenaccio”, un principio di gioco che prevedeva rigidissime marcature a uomo
a tutto campo, una grande difesa del fortino e contropiedi al fulmicotone.
In realtà se osservassimo
con attenzione le varie formazioni del Trap, troveremmo spesso degli undici
composti da giocatori non solo di grande qualità ma anche dotati di caratteristiche
piuttosto offensive.
Una delle sue Juventus
più belle e vincenti presentava un terzino d’attacco come Antonio Cabrini, quasi
un’ala aggiunta. Un libero come Gaetano Scirea, regista aggiunto della quadra
più che un difensore. Un’ala destra con caratteristiche offensive (così come li
furono i vari Marocchino, Fanna e Briaschi), una mezzala d’inserimento come
Marco Tardelli, un trequartista come Platini, un centravanti come Paolo Rossi (o
Roberto Bettega) e un esterno con caratteristiche molto offensive come Zibì Boniek.
Con la verità
che, come spesso accade, stava nel mezzo. Con squadre messe in campo con più
giocatori offensivi ma schierate con principi di gioco che prevedevano un
baricentro piuttosto basso, un atteggiamento spesso attendista e passivo, basato
sul lasciare la palla all’avversario per poi colpirlo con contropiedi magistralmente
innescati dal genio di Platini e concretizzati da killer dell’aera di rigore
quali Paolo Rossi e Zibì Boniek.
Quel che è certo
è che, pur rimanendo ancorato alle tradizione del calcio di matrice italiano,
il Trap non smise mai di studiare, di aggiornarsi, di provare, fino a trovare
la sua strada, quella definita della “zona mista”, con ogni giocatore
posizionato in una precisa zona di campo all’interno della quale si marcava a
uomo.
Altra critiche
che gli venne mossa fu quella di saper vincere solo alla Juventus, squadra che
in quegli anni poteva permettersi di schierare i migliori calciatori a livello
europeo.
Una serie di
elementi, questi ultimi, che nell’estate del 1986 lo spinsero ad accettare
nuove sfide, salutando il club della famiglia Agnelli per andarsi a sedere
sulla panchina della storica rivale: l’Inter.
Club, quello
nerazzurro, con cui il Trap nella stagione 1988/89 vinse quello che verrà definito
come lo scudetto dei record, con 58 punti conquistati sui 68 possibili.
Un’importante rivincita
per questo grande stratega del football italiano, che da “catenacciaro” si
tolse la soddisfazione di vincere e convincere anche sulla panchina nerazzurra
dopo i tanti successi ottenuti in bianconero.
Per lui poi tante
altre panchine prestigiose: Bayern Monaco, Cagliari, Fiorentina, nazionale italiana,
Benfica, Stoccarda, Salisburgo e per finire la nazionale irlandese con il fido
Marco Tardelli come suo vice.
Tutto ciò
inframmezzato da una nuova parentesi bianconera tra il 1991 e il 1994, con il
Trap che venne richiamato sotto la Mole dall’Avvocato Agnelli in coppia con
Giampiero Boniperti per rimettere in sesto la disastrosa Juventus targata
Montezemolo - Maifredi della stagione 1990/91.
Ma, come spesso
accade, le minestre riscaldate non hanno lo stesso sapore di quelle originali: il
Trap, pur conquistando una Coppa UEFA nella stagione 1992/93 battendo in finale
in Borussia Dortmund, non riuscì nell’impresa di riportare a Torino lo scudetto.
Prodezza che
riuscì invece al suo successore, Marcello Lippi, nella stagione 1994/’95, con il “Paul Newman” di Viareggio che riuscì a dar vita
ad un ciclo anch’esso da annoverare tra i più entusiasmanti e leggendari della smisurata
storia bianconera.



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