FILOBIANCONERO RACCONTA i grandi numeri “dieci” della storia bianconera.

 


Il “dieci” nel calcio è ben più di un semplice numero di maglia. Non da sempre, ma dal 1958, quando ai mondiali di Svezia un allora diciassettenne brasiliano ricevette proprio quel numero che per i Pitagorici raffigurava il concetto di perfezione. Edson Arantes do Nascimento, questo il suo nome per esteso, ma meglio noto come Pelé. Un predestinato, diventato la vera relazione di quel campionato mondiale, con una serie di prodezze che attribuirono a quel numero che portava sulla schiena una sorta di fascino, seduzione e suggestione.

Non a caso da quell’anno tutte le più grandi star della pedata hanno indossato e continuano ad indossare il numero “dieci”. Da Diego Armando Maradona a Michel Platini, da Eusebio a Zico, da Lothar Matthaus a Zidane, da Roberto Baggio a Lionel Messi, solo per citarne alcuni tra i più grandi. Giocatori accomunati da una serie di elementi connettivi quali fantasia, genio, imprevedibilità, vene artistica, così come dall’essere capaci di mostrare quei lampi di genio in grado di illuminare tutt’un colpo gli stadi di tutto il mondo.

Registi, trequartisti, centrocampisti offensivi, seconde punte. Definizioni a dir poco riduttive per talenti di questo valore, dal momento che cercare di classificare un qualcosa che non può essere compresso in schemi prestabiliti rischia solo di reprimerne e asfissiarne magia e genio. Esattamente ciò che hanno maldestramente tentato di fare più allenatori nel corso della storia del calcio.

Numeri “dieci” che hanno frequentemente scandito la storia dei maggiori club di tutto il mondo, così come è stato per la Juventus. Con una serie di “dieci” bianconeri che attraverso le prossime righe cercherò di tratteggiare, con occhi lucidi e mano tremante procurata dal solo ricordarli; e pur con la piena consapevolezza che per raccontarvi le loro gesta sarebbero necessarie decine, centinaia, migliaia di pagine.

Nel calcio moderno il primo grande “dieci” a vestire la maglia della Vecchia Signora fu un esile argentino, Omar Sivori, “l’angelo con la faccia sporca”. Con “El Cabezón” che indossò la “dieci” a strisce bianconere tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ‘60 del secolo dando vita ad un trio delle meraviglie con altre due icone bianconere: John Charles e Giampiero Boniperti.

Fantasista capace di mettere a segno gol spettacolari con il marchio di fabbrica nel tunnel. Il Maradona prima di Maradona, che con la Juve vinse tre scudetti, tre Coppe Italia, il titolo di capocannoniere del 1960 con ventotto reti, conquistando inoltre il Pallone d’Oro nel 1961.  

Ad editare la maglia lasciata libera dal fuoriclasse argentino fu un calciatore proveniente dalla più vicina Germania: Helmut Haller, che la indossò tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni 70 del secolo scorso. Giocatore che crebbe nell'Augusta, la squadra della sua città natale, fino a quando nell’estate del 1962 venne acquistato dal Bologna. Nella città delle due Torri il teutonico mostrò le sue doti di regista offensivo mettendole a disposizione del tandem Pascutti – Nielsen, con il Presidente bianconero Vittore Catella che nell’estate del 1968 lo portò a Torino. Trequartista o ala, dotato di un dribbling ubriacante e vero e proprio assist-man, alla Juventus dipinse il suo calcio Champagne per la gioia del duo d’attacco Anastasi - Bettega, confermandosi pure importante finalizzatore.

Dopo il suo addio, avvenuto nell’estate del 1973, seguirono anni nei quali più giocatori si alternarono ad indossare la “dieci” bianconera, compreso l’Irlandese Liam Brady che a partire dal 1980 la indossò per un paio di stagioni. Centrocampista di buona qualità, un ragionatore del centrocampo proveniente dai “Gunners” dell’Arsenal, ma ancor prima un professionista di prim’ordine. Caratteristica, quest’ultima, che estrinsecò realizzando il rigore che in un Catanzaro – Juventus regalò ai bianconeri lo scudetto della stagione 1981/82. E lo fece pur conscio che la Signora lo aveva precocemente giubilato in favore di uno dei “dieci” per antonomasia della storia del calcio: Michel Platini. 

Sua Maestà Le Roi, il francese capace sia di segnare come un centravanti che di regalare assist a ripetizione ai suoi partner d’attacco. Platini che indossando la “dieci” bianconera vinse due scudetti, una Coppa Italia, una Coppa delle Coppe, una Coppa dei Campioni, una Supercoppa europea e una Coppa Intercontinentale, impreziosendo il tutto con 147 reti, tre titoli di capocannoniere della Serie A e uno di Coppa dei Campioni, ma soprattutto conquistando tre Palloni d’Oro consecutivi.

Quando nell’estate del 1987 le strade di Platinì e della Juventus si separarono, la “dieci” bianconera fu indossata da buoni giocatori ma non grandi campioni. Il gioiellino danese Michelino Laudrup, Giancarlo Marocchi, mezzala proveniente dal Bologna, Massimo Mauro talentuosa ala – trequartista proveniente dall’Udinese, ma soprattutto Saha Zavarov, fantasista sovietico uscito dal laboratorio di Valerij Lobanovsky che si legò alla Juventus nella stagione 1988/89.

Annunciato come un fuoriclasse assoluto, e in quanto tale chiamato ad indossare quel sacro “dieci”, si rivelò una totale delusione. Allenatore dei bianconeri in quegli anni era Dino Zoff, che pur di metterlo a suo agio lo provò in diversi ruoli: trequartista, regista a tutto campo, seconda punta, con il Sovietico che mai convinse fino in fondo, frenato da problemi di ambientamento extra calcistici, con la Juventus che dopo solo due deludentissime stagioni lo cedette ai francesi del Nancy.

E arriviamo all’estate del 1990, quella nella quale in un venerdì di inizio giugno Edoardo Bennato e Gianna Nannini cantavano a San Siro “Notti magiche”, l’inno della quattordicesima edizione dei Campionato del Mondo di calcio che venne disputato in Italia. Notti romane che aveva visto emergere in tutto il suo splendore il talento di uno dei più grandi artisti di sempre del calcio italiano: Roberto Baggio, il “Divin Codino”.

Giocatore di cui, calcisticamente, si innamorò l’Avvocato Gianni Agnelli che, da cultore del bello e quindi degli artisti del calcio, spiazzando l’intera concorrenza trovò l’accordo con la Fiorentina del Conte Pontello, consentendo a Baggio di vestire le “dieci” bianconera. Un Agnelli “vedovo” di Michel Platini che, non essendo riuscito a mettere le mani su Diego Armando Maradona, aveva una voglia matta di tornare a divertirsi grazie alle giocate di un grande numero “dieci “che ormai da troppo tempo mancava alla sua amata Juventus.

Con Roby che, arrivato sotto la Mole con grandi aspettative e pur con qualche difficoltà di ambientamento anche causa la mai dimenticata Firenze, ripagò ampiamente la fiducia concessagli dall’Avvocato conquistando una Coppa Italia, il pallone d’Oro e nella sua ultima parentesi bianconera (‘94/’95) lo scudetto.

Stagione, quest’ultima, al termine della quale il talento di Caldogno salutò la Juve lasciando la ““dieci”” al classe 1974 Alessandro del Piero. Talento emergente del calcio italiano che Gianni Agnelli soprannominò Pinturicchio in onore del pittore perugino del secondo Quattrocento. Artista di esile corporatura ma dotato di una vena artistica tale da consentirgli di dipingere con tecniche a trecentosessanta gradi che per straordinarietà e unicità ricordavano le mirabolanti giocate che Alex sapeva mostrare in campo. Grande il suo palmares in bianconero: sei scudetti, una Coppa Italia, quattro Supercoppe Italiane, una Champions League, una Supercoppa Uefa, una Coppa Intertoto, un Campionato di Serie B e non per ultima una Coppa Intercontinentale. La prima del club bianconero, conquistata dagli uomini di Marcello Lippi nel novembre 1996, con Alex autore del gol partita grazie al piatto forte della casa: tiro a giro dal vertice destro dell’area di rigore avversaria con la palla ad insaccarsi regolarmente all’incrocio dei pali opposto della porta difesa dall’esterrefatto portiere di turno. Con Pinturicchio che al momento del suo addio dichiarò che la sua “dieci” non doveva essere ritirata, dal momento che ogni bambino ha il diritto di continuare a sognare di poterla un giorno vestire, fantasticando di ripetere le gesta di vere e proprie leggende quali Del Piero stesso, Pelé, Maradona, Platini, Baggio, Totti, Messi e tanti altri ancora.

Nello stesso periodo, in casa Juventus ci fu un altro “dieci” che deliziò con le sue magie gli spettatori del Delle Alpi: Zinedine Zidane. Uno straordinario artista del calcio mondiale che, pur essendo un “dieci” a tutti gli effetti, a Torino giocò sempre con la numero ventuno, visto che la “dieci” aveva il suo padrone in Alessandro Del Piero. “Zizou”, questo il suo soprannome, campione francese di origine algerina, pallone d’Oro nella stagione 1998 con il club bianconero che per classe talento e fantasia viene annoverato di diritto tra i grandi numeri “dieci” bianconeri pur non avendo mai indossato quella magica maglia.

Una volta che Del Piero lasciò la Juventus (estate 2012) alla società fu necessario un anno per incontrare un degno sostituto della “dieci”, trovandolo in un grande campione argentino, Carlos Tévez, l’“Apache”, che arrivò a Torino da alcune stagioni incolori a Manchester sponda City. Argentino che, a differenza di quanto fatto vedere nella Premier inglese, a Torino si dimostrò un giocatore straordinario. Classe, personalità, leadership, e una capacità realizzativa di tutto rispetto, con diciannove gol messi a segno già nella sua prima stagione in maglia Juventus, la maggior parte decisivi per la conquista dello scudetto. Carlitos che, dopo aver portato la Juventus alla sfortunata finale di Champions di Berlino 2015, salutò Allegri e compagni per far ritorno al Boca Juniors, il suo club d’origine. Con la “dieci” bianconera ereditata da Paul Pogba, il “Polpo”.

Talento francese, quest’ultimo, arrivato quasi sottotraccia dal Manchester United nell’estate 2012 grazie a Mino Raiola, che da grande scopritore di talenti se lo era accalappiato consigliandogli di non rinnovare il contratto con lo United in scadenza proprio nel giugno di quell’anno. Un potenziale top mondiale il transalpino di origini guineane, che non ebbe alcuna difficoltà ad inserirsi in una Juventus dotata di una monumentale mediana formata da Andrea Pirlo in cabina di regia con ai suoi fianchi Claudio Marchisio e Arturo Vidal a fungere da mezzali box to box. Pogba che Antonio Conte fece esordire in uno Juventus – Chievo nel ruolo di mediano davanti alla difesa come vice-Pirlo, per poi spostarlo nel ruolo di mezzala sinistra, quello in cui si consacrò come vera e propria star a livello mondiale diventando campione del mondo con la propria nazionale nell’edizione mondiale di Russia 2018. Fisicità prorompente, capacità di calciare indifferentemente con entrambi i piedi, lanci millimetrici, tiro dalla lunga distanza, colpi di grande classe, gol e assist a gogò.

E proprio quando Carlitos Tevez gli cedette la “dieci” (stagione 2015/2016) Pogba, diventato nel frattempo sempre più star e leader dei bianconeri, fu autore di una sontuosa stagione che lo consacrò nell’élite del grande calcio mondiale al punto da convincere lo United a riportarlo a Manchester per la cifra di 105 milioni di euro più 5 di bonus. Il giocatore più pagato della storia del calcio fino a quel giorno. E con Paul Pogba in uscita, la “dieci” bianconera venne ereditata da un giovane e talentuoso argentino, pronto a rinverdire le gesta di Omar Sivori e di Carlitos Tevez: Paulo Dybala. Classe 1993 di Laguna Larga, la Joya (questo il suo soprannome) era già da un anno a Torino essendovi arrivato nell’estate 2015 per oltre quaranta milioni di euro dal Palermo. Tormentato il suo settennato di storia in maglia Juventus, con Dybala come uno dei giocatori più divisivi della tifoseria bianconera, l’unico tra tutti questi grandi “dieci”.

Da una parte i “Dybalisti”, che ammiravano estasiati le sue giocate di classe e fantasia grazie al suo magico sinistro, e dall’altra gli “antiDybalisti”, che lo hanno sempre ritenuto un giocatore di quelli belli da vedere, eleganti, irresistibili nelle giornate di grazia, ma assai fragile a livello psicofisico. Un oggetto da tenere in bella mostra nel salotto di casa più che un calciatore decisivo. Forte con i deboli e debole con i forti. Con la verità che, come spesso accade, sta nel mezzo. Un genio del calcio, dotato di uno smisurato talento che a causa delle sue debolezze abbinate a scelte quantomeno discutibili fatte fuori dal campo non arrivò mai ad essere quel fuoriclasse che avrebbe avuto le capacità di diventare. Paulo Dybala che, nell’estate appena trascorsa, non riuscendo a trovare con il management bianconero i presupposti per rinnovare il contratto in scadenza salutò Torino andando ad accasarsi nella Roma di Josè Mourinho con un clamoroso ritorno in maglia bianconera, quello di Paul Pogba.

Con il club di Andrea Agnelli che, nel luglio appena passato, annunciò il ritorno del “Polpo” con il seguente comunicato a forte tinte emozionali: "Quando ci si saluta, dopo un’avventura meravigliosa vissuta insieme, in un angolo del cuore c’è sempre una piccola speranza di rivedersi, prima o poi. Con Paul è stato proprio così. Nel 2016 le nostre strade si sono separate, dopo 4 anni incredibili. Anni in cui quel giovane talentuoso ragazzo francese di nemmeno 20 anni esordiva in Prima Squadra, e dopo meno di un mese segnava il suo primo gol. Anni in cui avevamo imparato a trattenere il fiato ogni volta che lo vedevamo caricare il tiro da fuori: sapevamo come poteva andare a finire, e spesso finiva in un boato di gioia. Anni in cui Pogba è diventato un campione pazzesco, vincendo tantissimo in maglia bianconera, sfiorando la Champions nel 2015, fornendo 12 assist solo nella sua ultima stagione a Torino, andando via con un bottino di 34 marcature, cui aggiungere la bellezza di 32 assist, per un totale di 66 gol che lo hanno visto protagonista. Poi ci siamo salutati, e lui nel frattempo ha consacrato il suo talento e la sua potenza, diventando anche Campione del Mondo con la Francia nel 2018. Ci siamo salutati, ma non ci siamo mai realmente dimenticati: c’è qualcosa di ancestrale nel richiamo di casa, quel qualcosa che alla fine, dopo mille avventure, ti fa tornare. Paul è di nuovo a Torino, è andato via ragazzo, ritorna uomo e fuoriclasse, ma c’è una cosa che non è cambiata: la voglia di scrivere altre nuove pagine indimenticabili, insieme. Non potremmo essere più felici: Pogba è di nuovo con noi".

Paul Pogba, il “Polpo”. Uno di quei ““dieci”” che rappresentano una lode d’amore al football. Uno di quei campioni che hanno fatto e che faranno la storia del calcio, così come quella della Juventus, grazie al loro saper illuminare il campo con le loro magie. Imprevedibilità, genio e sregolatezza; figli di quel calcio romantico del secolo scorso, quelli che inventano, stupiscono ed emozionano. Quelli che rappresentano l’espressione più limpida del talento grazie ai loro dribbling ubriacanti, piuttosto che deliziandoci con un dolce colpo di tacco, con una veronica o con una “Ruleta”.  

Veri e propri poeti del calcio che, così come i vati della scrittura, sono allo stesso tempo introversi, esaltanti, inquieti e imprevedibili, in onore della bellezza di questo meraviglioso sport.


Commenti