FiloBianconero racconta JUVE PORTO 2-1 // FINALE COPPA DELLA COPPE 1983/’84

 


Più che un luogo comune è una realtà: nel calcio moderno non esistono più le bandiere.

Quei calciatori che fino alla sentenza Bosman avevano legato l’intera carriera ad una sola maglia, quasi come se l’avessero tatuata sulla palle piuttosto che indossata.

Veri e propri simboli con cui intere tifoserie si sono identificate, così come giocatori che hanno rappresentato un esempio e una guida sia per i giovani che per i neoacquisti.

Calciatori e uomini di razza proprio come lo furono Dino Zoff e Roberto Bettega, due bandiere bianconere che lasciarono la Juve nell’estate del 1983.

Il primo, a quarantuno anni suonati, che una volta appesi i guantoni al chiodo entrò nello staff tecnico della società come preparatore dei portieri lasciando il posto tra i pali ad un giovane proveniente dall’Avellino: Stefano Tacconi, promettente estremo difensore.

Il secondo, Bobby Gol, che se ne andò al Toronto Blizzard in Canada, a spendere il suo ultimo anno da calciatore lasciando il posto in bianconero a Domenico Penzo.

Attaccante, quest’ultimo, non di grande nome ma di sicuro rendimento, proveniente da ottime stagioni a Verona.

Due separazioni non di poco conto per la Signora che, ciononostante, dopo un girone d’andata particolarmente combattuto contro i campioni d’Italia in carica della Roma e lo spumeggiante Verona di Osvaldo Bagnoli, furono in grado con un grande girone di ritorno di dare la zampata del campione.

Uno sprint di primavera che consentì ai bianconeri di lasciarsi alle spalle le varie inseguitrici andando a conquistare il suo ventunesimo scudetto con due punti di vantaggio sulla Roma, sette sulla Fiorentina e otto sull’Inter.

Sugli scudi ancora una volta il faro della squadra Michel Platini, Le Roi, che con venti realizzazioni si laureò capocannoniere della serie A con un gol di differenza su un altro straordinario fuoriclasse, quell’Arthur Antunes Coimbra detto Zico, che illuminava l’intera Udine con le sue mirabolanti giocate.

Parallelamente al cammino in campionato, la Juve in quella stagione partecipò alla Coppa delle Coppe, con il dichiarato obiettivo di rifarsi dal dolorosissimo insuccesso dell’anno precedente, quando ad Atene era andato in scena un vero e proprio psicodramma.

Con un eurogol di Felix Magath che aveva regalato la Coppa dei Campioni all’Amburgo, assestando un colpo difficile da dimenticare a tutto il popolo bianconero, procurandogli una dolorosissima ferita mai lenita fino in fondo.

Cammino europeo che la Juve percorse eliminando prima il Lechia di Danzica, poi il Paris Saint Germain, proseguendo con i finlandesi del Vlkaekoneng, e soprattutto il Manchester United in una semifinale di grande calcio decisa da una prodezza di Pablito Rossi che in piena zona Cesarini realizzò il gol che regalò agli uomini del Trap la meritata finale in programma la sera del 16 maggio 1984.

Finale nella quale la Juventus trovò i lusitani del Porto. Squadra allenata da Antonio Morais, tecnico promulgatore del calcio a zona, con un sistema di gioco basato sui concetti di squadra corta, compatta, messa in campo con sagaci palleggiatori, con il marchio di fabbrica rappresentato da una fitta ragnatela di passaggi e da un possesso palla difficile da contrastare.

La sede scelta dalla Federazione per ospitare la ventiquattresima edizione della finale di Coppa delle Coppe fu quella del St. Jakob Stadium di Basilea, graziosa cittadina svizzera dalle suggestive atmosfere medioevali.  

La Vecchia Signora, allenata da Giovanni Trapattoni, si presentò a questo incontro leggermente favorita dalla maggior parte della critica, per un successo che avrebbe rappresentato la perfetta chiosa finale all’ennesima trionfale stagione del Trap stesso sulla panchina dei bianconeri.

Il “Giuan” da Cusano Milanino che, alla faccia di chi lo considerava l’allievo prediletto di Nereo Rocco, portatore di una becera mentalità difensivistica, mise in campo la squadra con un innovativo 4-2-3-1.

Un sistema di gioco piuttosto raro per il calcio dell’epoca che vedeva la maggior parte delle squadre schierarsi con il classico 4-4-2.

Davanti a Stefano Tacconi, Trapattoni piazzò Claudio Gentile terzino destro “bloccato”, Sergio Brio stopper, Gaetano Scirea libero moderno e vero e proprio regista aggiunto della squadra, ed Antonio Cabrini terzino fluidificante pronto a difendere ma soprattutto a spingere a più non posso sulla fascia sinistra.

Una mediana di lotta e di governo composta dalla coppia “sette polmoni” Bonini - Tardelli a fare da frangiflutti davanti alla difesa e coprispalle ad un terzetto di grande qualità quali Beniamino Vignola, Michel Platini e Zibì Boniek, con i tre che agivano alle spalle del centravanti Paolo Rossi.

Di fronte, il Porto schiarato con un più classico 4-4-2 che prevedeva Ze Beto, Joao Pinto, Eduardo Luis, Lima Pereira, Eurico, Jaime Magalhaes, Frasco, Sousa, Gomes, Pacheco, Vermelhinho.

Una squadra costruita attorno al fulcro Pacheco, mezzala di classe e qualità internazionale, con i gemelli del gol portoghese Gomes – Vermelhinho a mettere paura in prima linea.

Una partita di scacchi giocata su stili opposti fra loro: la zona portoghese contro il gioco a uomo, o per meglio dire a zona mista del Trap, basato su rigide marcature a uomo non a tutto campo bensì all’interno della zona di competenza di ogni giocatore.

Il gioco orizzontale dei lusitani contro il gioco verticale dei bianconeri.

Il copione della gara si snodò come da preventivo, con i portoghesi a far girar palla con brevi e continui fraseggi e i bianconeri corti, compatti, attenti a chiudere le linee di passaggio degli avversari e pronti a ripartire con i proverbiali e fulminei contropiedi magistralmente organizzati da Michel Platini.

Una Juventus composta da autentici cavalli di razza ma che in quella serata vide brillare più di chiunque altro un onesto gregario della pedata: Beniamino Vignola.

Un centrocampista poco fisicato ma con una tale quantità di fosforo in zucca da essere paragonato nientepopodimeno che a Gianni Rivera.

Un regista vecchio stile, di quelli capaci di far partire la manovra con ordine e precisione ma anche rifinirla e, perché no, concluderla.

Proprio come in quel 16 maggio 1984, quando al tredicesimo minuto di gioco il classe ‘59 di origine veronese lanciato da un passaggio di Platini, si involò dal settore di centrosinistra della mediana portoghese ed una volta giunto al limite dell’area con un malizioso sinistro ad incrociare andò a gonfiare la rete del lusitani, depositando la palla alla sinistra dell’incolpevole Ze Beto.

Porto che seppe reagire andando a riequilibrare la partita al 29′ minuto del primo tempo grazie ad António Sousa che, con un tiro da 30 metri, lasciò di stucco Stefano Tacconi.

Portoghesi che quella sera si trovarono di fronte una delle migliori Juventus di sempre, quella per le quali vincere non è importante ma è l’unica cosa che conta.

Con il DNA bianconero che tornò prepotentemente a prevalere pochi minuti prima del termine della prima frazione di gioco quando il polacco Boniek, lanciato a rete da un ispiratissimo Beniamino Vignola, mise a segno il gol del 2-1 per la Vecchia Signora.

Zibì Boniek, il primo grande giocatore dell’allora blocco dell’Est, arrivato in Italia grazie ai buoni uffici della FIAT di Gianni Agnelli.

Con l’Avvocato che nella primavera del 1982 incominciò a dialogare con le alte sfere della nomenclatura polacca attraverso il dottor Pietro Giuliani, alto dirigente Juventus e braccio destro dell'Avvocato stesso.

Giuliano, che il patron della FIAT inviò personalmente a Varsavia, con l'obiettivo di portare in Italia l’attaccante polacco, lavorando totalmente sottotraccia

Negoziazione complicatissima tra la Juventus e il club polacco del Widzew Lodz, , che durò oltre una settimana prima di ottenere il via libera per i bianconeri.

Boniek che in quella serata di Basilea con le sue fughe da centometrista riuscì a tenere sotto scacco l’intera retroguardia portoghese risultandone una fastidiosissima spina nel fianco.  

Il “bello di notte” lo soprannominò Gianni Agnelli stesso, affibbiandogli uno dei tanti nomignoli con i quali l’Avvocato amava chiamare i propri pupilli.

E lo fece in onore delle migliori partite disputate dal polacco in bianconero, quelle nelle Cope europee giocate sotto i riflettori che illuminavano il terreno verde.

Secondo tempo in perfetto stile Trapattoniano, con il pallino del gioco lasciato in mano ai portoghesi e la Juve rintanata con tutti i suoi uomini di movimento dietro la linea del pallone alla difesa di Fort Apache.

Bianconeri autori di una perfetta fase difensiva sostenuta da veri e propri gladiatori quali Tardelli, Gentile, Bonini e Brio, così come di un sontuoso contropiede magistralmente organizzato dalla coppia Platini – Vignola, straordinari protagonisti di quella grande impresa bianconera.   

Con il fischio finale dell’arbitro Adolf Prokop che, sancendo il definitivo due a uno a favore della Juventus, consegnò a Gaetano Scirea la prima e unica Coppa delle Coppe conquistata dal club della famiglia Agnelli.

Con “Gay” che proprio in quell’anno aveva ereditato i galloni di capitano della squadra da un altro grande eroe bianconero, Beppe Furino, giunto al capolinea della sua luminosa carriera. 

Un trofeo conquistato sì grazie a campioni affermati quali Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli, Platini, Rossi, Boniek ma anche ai vari Luciano Bodini, Segio Brio, Nicola Caricola, Massimo Bonini, Cesare Prandelli, Giovanni Koetting, Roberto Tavola, Domenico Penzo e Beniamino Vignola, straordinari gregari innamorati della maglia che indossavano.

Calciatori a cui non faceva difetto uscire dal campo con la divisa impregnata di sudore, sporca di fango così come senza un filo di fiato rimasto nei polmoni, perché spinti a dare il 110% delle loro possibilità dal sacro fuoco dell’”anima” Juventus.

Un’unione di elementi, quest’ultimi, che nel corso degli anni hanno costruito quell’anima operaia che ha reso grande questo grande club

Grandi uomini, ancor prima che straordinari calciatori, impregnati fino al midollo dell’anima Juventus, di quella “juventinità” che da sempre hanno contraddistinto la Vecchia Signora.

Proprio come lo fu il grande protagonista di quella serata, quel Beniamino Vignola arrivato in Piemonte con il più basso profilo possibile e con la piena e totale consapevolezza di dover dividere il ruolo con un fuoriclasse come “Le Roi” Michel Platini.

Vignola che, grazie alla sua grande professionalità, riuscì regalarsi quella straordinaria serata da vero protagonista. Sedici maggio 1984: un giorno che resterà scolpito per sempre nei meandri più profondi della sua memoria, così come in quella di tutto il popolo bianconero.  


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