FILOBIANCOBERO RACCONTA ROBERTO BETTEGA
I luoghi comuni sono idee generali,
valori, giudizi e credenze collettive. Presentano la caratteristica dell’ovvietà
e proprio per questo vengono utilizzati per enfatizzare un’idea senza volerla
argomentarle soprattutto quando essa viene messa in discussione. Uno dei
principali luoghi comuni calcistici recita che “Nel calcio di oggi le bandiere
non esistono più”. Nel football che fu, non era inusuale vedere più giocatori
rimanere per l’intera carriera nello stesso club. Il calcio però è cambiato e
oggi, al contrario di un tempo, è diventato sempre più raro trovare calciatori sensibili
a giurare amore eterno ad una squadra per l’attaccamento alla maglia. Ecco
perché i più romantici ricordando con una certa nostalgia, i giocatori
“bandiera” di un tempo. Esistono alcuni elementi che si pongono come minimo
comune denominatore per ritenere un atleta bandiera di un club. Il numero di
presenze e di stagioni trascorse in quella squadra ma ancor di più il saperne
incarnare i valori fondanti, il DNA. L’assoluta volontà di unirsi in un
matrimonio indissolubile alla storia di quel club, e alla sua tifoseria come
avviene nelle più felici storie d’amore. Tutto quello che Roberto Bettega ha
rappresentato per la Juventus, nella quale entrò a far parte agli inizi degli
anni ’60 del secolo scorso. Prima nel settore giovanile per poi passare in
prima squadra dove giocò per tredici stagioni conquistando sette scudetti, una
Coppa UEFA e una Coppa Italia. Uno dei pochi torinesi DOC che hanno lasciato
un’impronta significativa nella storia della Vecchia Signora. Narrare la storia
di Roberto Bettega, soprannominato sia Bobby gol per la capacità realizzativa
che Penna bianca per la precoce capigliatura bianca che lo rendeva
particolarmente riconoscibile, significa raccontare l’avventura di uno dei più
grandi attaccanti italiani del dopoguerra. Un “gobbo” in tutto e per tutto,
portatore dello stile Juventus così come di quell’arroganza che gli
antijuventini hanno sempre attribuito a Madama. Nato nel primo dopo guerra
nella periferia torinese Roberto crebbe con un padre carrozziere e una mamma
maestra. Dalla mamma ereditò la passione per lo studio e dal papà quella per il
calcio. Con le sue giornate scandite dal binomio scuola – pallone, attrezzo quest’ultimo
a cui Bettega diede del tu fin da subito. Colori bianconeri che entrarono
nell’anima di Bettega già all’età di sette anni quando il papà, altro gobbo vero,
lo portò in curva Filadelfia del vecchio Comunale in occasione di un derby
della Mole. Da quel giorno l’unico suo obiettivo fu quello di diventare un
calciatore. Non di una squadra qualsiasi, bensì di Madama Juventus, quella
Vecchia Signora di cui non smise mai di esserne innamorato. Chiese a papà
Raimondo di iscriverlo alla scuola calcio della Juventus dove emerse rapidamente
tra i ragazzini del suo gruppo anche aiutato da una fisicità prorompente rispetto
a quella dei suoi coetanei. Gli inizi furono da mediano ma nel 1964-65
l’allenatore degli Allievi Grosso lo spostò in prima linea dove Bettega sognava
di poter giocare per ricalcare le orme del suo idolo, John Charles. Gallese del
quale adorava non solo il modo di giocare ma anche il coraggio che il
britannico metteva in evidenza nella sua straordinaria capacità di impattare la
sfera di testa, non solo per merito di una grande elevazione ma ancor più per
la temerarietà con la quale si gettava su ogni palla senza timore di infortunarsi.
Il suo fu il classico caso dove l’allievo superò il maestro con Bettega che non
solo metterà in mostra una prodigiosa capacità di colpire di testa ma anche due
piedi più che morbidi (ambidestro), da numero dieci, di cui King John, il Gigante
Buono, non poteva disporre. E fu così che dopo tutta la trafila nelle varie
squadre giovanili bianconere, nella stagione ’68-69, Ercole Rabitti lo aggregò
alla prima squadra. Il diciottenne Bettega nel corso degli anni era diventato
un “nove” con i piedi da “dieci” supportato sia da un fisico non comune per i
calciatori di quegli anni (184 centimetri per 78 chili di peso) che da una
visione di gioco difficile da riscontare per ragazzo di quell’età. Ritenuto
acerbo per un grande club come la Juventus fu spedito in provincia per poter giocare
con continuità nel secondo campionato nazionale, la serie B, in un Varese
allenato da un santone del calcio, lo svedese Nils Liedholm. Un fuoriclasse
della panchina che lascerà tracce indelebili nel background di Bobby Gol. Stagione
1969/’70 nella quale Bettega contribuì con i suoi tredici gol (capocannoniere
della squadra assieme ad Ariedo Braida) alla promozione dei lombardi nella
massima serie. Bomber lucidissimo negli ultimi sedici metri, fortissimo sia di
testa che in acrobazia, capace di farsi trovare sempre al posto giusto al
momento giusto. Un attaccante avveniristico, moderno, di quelli che non aspettavano
la palla in area di rigore ma capaci di cucire il gioco con centrocampo grazie
ad una tecnica sopraffina. Insomma, una punta a cui non mancava nulla: buon
trattamento di palla, fisico, elevazione, altruismo, opportunismo e in fine, ma
non per ultima, una straordinaria leadership naturale. Si incominciò a parlare
di Bettega come di un predestinato e due grandi dirigenti bianconeri, Giampiero
Boniperti ed Italo Allodi, nell’estate del 1970 lo riportarono a Torino insieme
ad altri giovani di belle speranze come Fabio Capello, Luciano Spinosi e Franco
Causio in una Vecchia Signora che stava cambiando pelle. Una nuova e giovane Juventus
che arrivò soltanto quarta, un risultato sicuramente non entusiasmante per un
ambiente dove vincere è l’unica cosa che conta ma che, essendo composta da
tanti giovani talenti, rappresentò il punto di partenza per la conquista dello
scudetto dell’anno successivo. Così come per porre le fondamenta della grande
squadra che dominò buona parte dei successivi quindici anni. Stagione
(1970/’71) nella quale l’esordiente Roberto Bettega risultò capocannoniere
della squadra con tredici reti. Tredici gol mai banali così come nella quarta
giornata del campionato di Serie A 1971/72 quando in un Milan Juventus
disputatosi in un gremito San Siro sorprese il "ragno nero" Cudicini
mettendo a segno un gol con un colpo di tacco talmente bello al punto da
ricevere l’applauso dell’allenatore dei rossoneri Nereo Rocco che fu
letteralmente ammaliato da tale magia. Una perla talmente attrattiva e
seducente da entrare a pieno diritto nella storia del calcio. Campionato
1971/72 che si rivelò strepitoso per Bettega schierato nel ruolo di ala
sinistra, l’”undici” del calcio che fu, in tandem con il siciliano Pietro
Anastasi. “La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo”, affermava Freak
Antony celebre cantattore e musicista bolognese. E mai fu scritta più grande
verità relativamente a Penna Bianca per ben due volte nel corso della sua carriera.
La prima, il 1° gennaio del 1972, quando da Golden Boy del calcio italiano venne
ricoverato in ospedale per un’insistente e fastidiosa tosse. Quella che
dapprima pareva essere un semplice malanno di stagione a fronte di successivi
approfondimenti si scoprì essere una forma piuttosto severa di pleurite. Patologia
che non solo lo lasciò ai box per l’intera stagione ma che rischiò seriamente di
comprometterne il proseguimento di carriera. “Bettega polmone marcio” si
leggeva negli striscioni esposti nelle curve di chi più lo temeva con Roberto
che grazie al suo carattere d’acciaio reagì come solo i grandi uomini sanno
fare vincendo la battaglia contro la malattia e tornando in campo accolto da
applausi scroscianti il 24 settembre 1972 in un Bologna – Juventus. La seconda,
il 4 novembre del 1981, quando nel capoluogo piemontese si giocò
Juventus-Anderlecht, gara di Coppa dei Campioni. Bettega, in pauroso scontro
col portiere belga Munaron, si frantumò il legamento collaterale-mediale del
ginocchio sinistro. Anche in questo caso stagione finita e addio al Mundial di
Spagna, quello che lo avrebbero laureato campione del mondo con la mitica nazionale
di Enzo Bearzot. Squadra azzurra nella quale in occasione della rassegna iridata
“Argentina ’78” Bettega fu grande protagonista in coppia con un giovane Paolo
Rossi. Con i due che saranno inseriti nell’undici ideale di quell’edizione
della massima competizione mondiale. Una mazzata terrificante che avrebbe
schiantato al suolo chicchessia. Ma non Bobby gol che attraverso il duro lavoro
quotidiano riuscì a tornare a calcare i terreni di gioco ancor più combattivo,
continuando a guidare con la sua grande leadership non solo l’attacco dei
bianconeri ma anche lo spogliatoio. Una figura un po’ altezzosa quella rappresentata
da Bettega, per qualcuno un po’ troppo presuntuoso, per altri invece soltanto
fiero della sua Juventinità. Contornato da un alone di silenzi prolungati così
come di rari momenti regalati all’ilarità e al tentativo di apparire simpatico.
Tutto ciò nonostante un’inconsueta veemenza oratoria che metteva in mostra sia
nelle comparsate in televisione con cui bilanciava la sobrietà Bonipertiana e
Agnelliana che in campo, come in occasione di una storica lite con il numero
uno degli arbitri italiani Luigi Agnolin durante un derby della Mole del 1980, combattuta
a colpi di "vaff…”. Un Bettega sempre più maturo, con una visibile
propensione a studiare da Presidente nel ricalcare le orme di Giampiero Boniperti
ogni qualvolta poteva dare sfoggio dello "stile Juve. Trasformandosi da attaccante
a giocatore a tutto campo, sviluppò un’immensa carriera che può vantare il
seguente palmares: tredici stagioni in maglia Juventus, 481 partite giocate, 178
gol messi a segno, sette scudetti, due Coppe Italia e una Coppa Uefa. Con
l’unica amarezza di aver concluso la sua esperienza bianconera senza essere riuscito
a conquistare la Coppa dei Campioni, la massima competizione continentale. La
prima volta gli sfuggì nel 1973 quando la sua Juventus ebbe la peggio contro la
grande Ajax di Johan Cruijff ma la più dolorosa fu la sconfitta rimediata nella
stagione 1982/83 quando con una squadra spaziale e piena di campioni quali Platini,
Boniek e Paolo Rossi (solo per citarne alcuni) gettò alle ortiche la possibilità
di agguantare l’ambito trofeo in un’orribile finale di Atene soccombendo per
1-0. Con Bettega che dopo aver appeso gli scarpini al chiodo dichiarò: "Se
avessi la facoltà di rivivere un avvenimento nella mia carriera tornerei a quel
maggio maledetto e rigiocherei la finale con i tedeschi. Loro non demeritarono,
solo che noi fummo irriconoscibili. Bettega diede l’addio a Madama nell’estate
1983 trasferendosi nella North American Soccer League (NASL) per militare nelle
file della squadra canadese del Toronto Blizzard dal momento che per nulla al
mondo avrebbe mai indossato altre maglie della nostra serie A. Maglia che pur
in un ruolo differente tornò a vestire dal momento che nel 1994 tornò a
lavorare per la Vecchia Signora andando a ricoprire il ruolo di vicepresidente nella
celeberrima “triade” assieme a Luciano Moggi e Antonio Giraudo. Di quel trio
magico Bettega rappresentava la continuità, la tradizione nel cambiamento. La
bandiera bianconera da issare a mo’ di ministro degli esteri per mantenere
rapporti di buon vicinato con i più blasonati club d’Europa. Carica che Bobby Gol
ricoprì fino all’estate 2006 quando a seguito dello scandalo “Calciopoli”
ritenne opportuno fare un passo indietro lasciando la poltrona di numero due di
Madama pur rimanendo in società per svolgere le mansioni di consulente di
mercato, risultando assolto per non aver commesso alcun fatto illecito.
Avventura bianconera che per Roberto Bettega proseguì anche in epoca Claude
Blanc, svolgendo il ruolo di vicedirettore generale prima di dare il definitivo
addio alla tanto amata Vecchia Signora all’alba dell’era Andrea Agnelli. Del Bettega
calciatore ricordiamo la classe cristallina, l’eleganza, la potenza, la modernità
che esprimeva attraverso il suo calcio totale in un’epoca in cui il centravanti
era essenzialmente un uomo d'area. A differenza del Bettega dirigente la cui immagine
più iconica che ci rimane è quella che lo ritrae in lacrime dopo il 2-1 al
Palermo il 7 maggio 2006, in piena “Calciopoli”, ad un passo dal ventinovesimo scudetto
bianconero. Immagine quella di Bobby Gol che andò ben oltre i nostri confini
nazionali dal momento che in Paraguay, il Tacuary, squadra del barrio Zeballos
Cuè di Asunciòn ha tutt’oggi il proprio stadio intitolato proprio a Roberto
Bettega. Grazie ad un’idea di Francisco Ocampo, ex presidente, ex allenatore
della squadra sudamericana e grande amico di Roberto Bettega fin dai tempi in
cui l’ex azzurro correva sui terreni verdi canadesi incantando il pubblico nord
americano allo stesso modo in cui per una buona quindicina d’anni ammaliò
l’Italia intera.



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