FILOBIANCONERO RACCONTA: IL PRIMO SCUDETTO BIANCOENRO DI MARCELLO LIPPI



L’ultima di serie A della prima esperienza bianconera del Trap fu il 27 aprile 1986 in un Lecce – Juventus 2 -3 in cui a Torino si festeggiò la conquista del ventiduesimo scudetto del club della famiglia Agnelli. Da quel giorno per Madama ci furono solo il secondo e il sesto posto di Rino Marchesi nelle stagioni 1986/’87 e 1987/’88 e i due quarti posti con la leggenda Dino Zoff in panchina nelle stagioni 1988/’89 e 1989/’90.

Per assecondare il motto che da sempre domina in casa Juve “Vincere non è importante ma è l’unica cosa che conta”, dopo quattro anni senza successi nell’estate 1990 la Juventus provò a sterzare a trecentosessanta gradi. Lo fece distaccandosi dall’ormai noto a tutti “stile Juventus” per tentare una vera e propria rivoluzione filosofica cercando di emulare il vittorioso Milan di Silvio Berlusconi. 

Svolta che portò all’uscita sia di Giampiero Boniperti, con lo storico Presidente bianconero che lasciò la sua poltrona a Vittorio Caissotti di Chiusano, sia all’esonero di un’altra bandiera della Vecchia Signora, Dino Zoff, che alla guida di una Juventus piuttosto povera tecnicamente aveva vinto la Coppa UEFA e la Coppa Italia nel 1990.

Juventus che decise di dare pieni poteri a Luca Cordero di Montezemolo, manager nell'orbita Fiat e reduce dall'organizzazione del campionato del mondo 1990, a cominciare dal mercato che mai fu sfarzoso come in quell’estate quando sotto la Mole arrivarono grandi campioni. Roberto Baggio, Paolo Di Canio, Thomas Häßler (campione del mondo in carica), il brasiliano Julio César, il miglior under 21 italiano Eugenio Corini e due difensori, De Marchi e Luppi.

Questi ultimi meno altisonanti a livello di nome ma espressamente richiesti dal nuovo tecnico bianconero Gigi Maifredi. Allenatore quest’ultimo appartenente alla «nouvelle Vogue» dei tecnici, fautore del calcio “champagne”, della zona pura, reduce da alcune buone stagioni al Bologna. Un’altra svolta epocale per la Vecchia Signora che in quell’estate rinnegò il suo DNA fatto di calcio all’Italiana per cercare di rispondere sullo stesso terreno al calcio avveniristico proposto dai rossoneri di Arrigo Sacchi. Peccato che il progetto targato Montezemolo – Maifredi si inabissò in perfetto stile Titanic alla prima ondata, con la Juventus che in quella stagione dovette accontentarsi di un deludentissimo settimo posto, che le impedì di entrare nelle Coppe Europee dopo ventotto anni di presenze consecutive in Europa.

La delusione fu tale che nell’estate 1991 gli Agnelli misero in scena una vera e propria controrivoluzione, per meglio dire una restaurazione, con il rientro di Giampiero Boniperti che tornò a guidare Madama in pompa magna con la qualifica di Amministratore Delegato con pieni poteri decisionali. La prima mossa di Boniperti fu quella di affidare la panchina a Giovanni Trapattoni da Cusano Milanino, che tornò a Torino dopo essersene andato cinque anni prima. Juventus Trap 2.0 che durò tre stagioni nelle quali il duo Boniperti – Trapattoni non riuscì a rivivere i fasti del suo decennio d’oro Juventino, quello compreso tra il 1976 e il 1976, raggranellando due secondi posti e una Coppa UEFA.

Risultati insoddisfacenti per la proprietà bianconera che al termine della stagione 1993/’94 andò verso la terza rivoluzione in cinque anni. Estate ’94, quella dei campionati del mondo a stelle e strisce ma anche quella che vide i vertici bianconeri interrogarsi sul come poter tornare a vincere quello scudetto che mancava a Torino dalla stagione 1985/86. Il patron bianconero Umberto Agnelli optò per un rinnovamento nelle alte sfere dando vita ad un nuovo assetto dirigenziale, la “Triade”. Management formato dal Vicepresidente Roberto Bettega, dall’Amministratore Delegato Antonio Giraudo, e dal Direttore Sportivo Luciano. Con i tre che per completare il lifting affidarono la panchina ad un giovane tecnico, l’emergente e carismatico viareggino Marcello Lippi, a cui affiancarono il vice Narcisio Pezzotti, il preparatore dei portieri Ivano Bordon e il preparatore atletico che lo stesso Lippi aveva già avuto al suo fianco nella parentesi napoletana dell’anno precedente, Gianpiero Ventrone. Il “Marines” soprannome affibbiatogli sia per il suo passato nelle forze dell’ordine che il suo modo militare di allenare gli atleti. Un duro, uno di quelli che vogliono vedere i giocatori arrivare sfiancati al termine di ogni seduta di allenamento.

Lippi, l’allenatore che Madama scelse per il suo rilancio, proveniva dalla dura gavetta della provincia. Pontedera, Siena, Pistoia, Carrara, Cesena, Lucca fino ad arrivare alla massima serie prima a Bergamo e poi a Napoli. Sulla panchina dei nerazzurri nella stagione 1992-1993 realizzò un inaspettato ottavo posto, mentre nella stagione successiva in un Napoli con grandi problemi ambientali causati da una pessima situazione economica raggiunse il sesto posto in classifica che valse ai partenopei la qualificazione in Coppa UEFA.

Un viareggino che, come ogni uomo di mare, si è sempre considerato un grande capitano di nave. Perché per gestire una nave così come una squadra di calcio serve quell’attitudine al comando necessaria per navigare anche nei mari più mossi con coraggio ed entusiasmo. E Lippi quest’“arte” diede prova di conoscerla perfettamente, esercitandola attraverso una sagace diplomazia ma nello stesso tempo con assoluta fermezza, partendo sempre dall’importanza della chiarezza nei rapporti interpersonali. Peculiarità che lo resero particolarmente abile nella gestione dello spogliatoio, il piatto forte della casa, che gli consentì di portare fuori dalle secche in Napoli nella stagione 1993/’94 con la società partenopea che navigava in un mare di guai e di incertezze societarie.

Lippi, che qualcuno paragonava per metodi e idee a Giovanni Trapattoni, in realtà era tutt’altro che un integralista. Nel corso della sua carriera aveva sperimentato sistemi e moduli di gioco diversissimi fra loro: zona, uomo, zona mista, capace di cambiare in modo camaleontico in relazione sia ai giocatori allenati che alle contingenze del momento. Più che ai numeri nudi e crudi, 4-3-3, 4-4-2, 3-5-2, Lippi aveva sempre dimostrato grande attenzione affinché le sue squadre traducessero in campo tali numeri dando vita a squadre equilibrate. Capaci di arrivare alla conclusione senza troppi fronzoli così come abilissime a sapersi riorganizzare non appena la sfera passava nei piedi dell’avversario, attraverso la spasmodica ricerca di riconquistare il pallone prima possibile. Una mentalità e un atteggiamento tipico delle squadre dominanti, di quelle che vengono costruite e cementate sia attraverso le sedute di allenamento sul campo che con un fine lavoro di spogliatoio.

Una Juve nuova dalla testa ai piedi per quella nuova scommessa bianconera imperniata sia sul rilancio di alcuni importanti calciatori che su una scoppiettante campagna acquisiti. Riguardo ai grandi vecchi, l’idea era quella di rivitalizzare due campioni come Gianluca Vialli e Roberto Baggio. Il primo era considerato da Lippi come una risorsa decisiva per la sua nuova Juventus. Il miglior attaccante italiano, che la Signora era riuscita a strappare alla Sampdoria ma che a fronte di una serie di problemi di natura fisica a Torino non aveva ancora dimostrato tutto il proprio valore. Un leader di quelli che lottano, urlano e sanno fare gruppo; proprio le caratteristiche più amate da Lippi. Il secondo, il “Divin Codino”, uno da venti gol a stagione garantiti. Ecco il motivo per cui la Juventus non operò acquisti in prima linea, potendo contare anche su Fabrizio Ravanelli e Alessandro Del Piero.  

Acquisti che Luciano Moggi indirizzò su difesa e centrocampo. La difesa venne puntellata con due innesti: Ciro Ferrara e Luca Fusi. Ferrara, pur mantenendo forti legami con la sua Napoli, per dare una svolta alla propria carriera scelse proprio la Juventus tra le tante squadre che in quell’estate lo avevano cercato. Luca Fusi, calciatore di provata esperienza, fu portato alla Juve per sfruttarne le indubbie qualità sia di calciatore che di uomo spogliatoio, con l’ex Toro capace di portare qualità, mentalità vincente e attitudine ad unire il gruppo. Il centrocampo invece di innesti ne vide tre: gli stranieri Paulo Sousa e Didier Deschamps e un giovane talentuoso che Lippi aveva lanciato nella sua parentesi atalantina, Alessio Tacchinardi.

La prima Juve di Lippi fu quella che esordì nel 64°campionato di calcio di Serie A, il primo giocato con i tre punti assegnati per ogni vittoria anziché due, pareggiando 1-1 a Brescia. In vantaggio con Antonio Conte venne raggiunta a dieci minuti dal triplice fischio dalle rondinelle con un gol dell’ala Schenardi. Juventus che in quell’esordio Lippi si schierò con un 4-3-1-2 con Peruzzi tra i pali, una difesa composta da destra a sinistra da Ferrara, Fusi, Kohler e Torricelli; Di Livio, Marocchi e Conte in mezzo al campo con Roby Baggio a inventare dietro la coppia d’attacco Vialli – Del Piero.

Prima parte della stagione con un andamento “up and down” per la Vecchia Signora con vittorie importanti come quelle per 2-0 al San Paolo di Napoli e quella casalinga sul Milan, alternate a brucianti sconfitte quali il 2-0 a Foggia e il 3-2 nel derby col Toro. Fino ad arrivare al 27 novembre 1994 quando nella partita Padova-Juventus, vinta per 2-1 dai bianconeri, Roberto Baggio, pur segnando un gol di pregevolissima fattura si infortunò al ginocchio destro. K.O, quello del Divin Codino, che offrì su un piatto d’argento il posto da titolare fisso al giovane Alessandro Del Piero, talento emergente del calcio italiano giunto a Torino grazie ad una felice intuizione di Giampiero Boniperti nella stagione precedente.

Alex che il 4 dicembre firmò con un gol capolavoro la rete che a tre minuti dalla fine completò un’epica rimonta contro la Fiorentina. Partita che fece da spartiacque nella stagione dei bianconeri che la giornata successiva sbancarono l’Olimpico di Roma con un epico 4-3 sulla Lazio di Zdenek Zeman laureandosi campione d’invero l’otto gennaio 1995 con una delle vittorie più belle della stagione: 3-1 a Parma sui crociati di Nevio Scala al termine di una gara perfetta da ogni punto di vista.

Testa della classifica che la Juve non abbandonò più, mettendo il sigillo alla sua cavalcata vittoriosa il giorno 21 maggio 1995 infliggendo al Parma un nettissimo 4-0 e conquistando matematicamente il tricolore con due giornate d'anticipo. Per la Juventus fu il ventitreesimo scudetto, ma soprattutto una vittoria che mancava a Torino sponda bianconera da ben nove anni. Successo che tutta la squadra dedicò ad Andrea Fortunato, ventitreenne terzino bianconero prematuramente scomparso il 25 aprile di quell’anno a causa di una terribile forma di leucemia.

Una stagione da incorniciare per tutti i componenti della rosa bianconera. Partendo dalla difesa fu una grande annata per il “Cinghialone” Angelo Peruzzi, guardiano della porta Juventina pienamente rinvigorito dalla cura Ventrone – Bordon e sempre ottimamente assistito dal vice Michelangelo Rampulla, secondo portiere affidabilissimo che salvò i bianconeri dal possibile pareggio in un Fiorentina -Juventus parando un calcio di rigore calciato da Gabriel Batistuta.

Così come quella di un superlativo Ciro Ferrara, l’investimento più oneroso della campagna acquisti estiva bianconera. Nove miliardi il costo del suo cartellino, cifra che in tanti definirono una follia per un terzino che al contrario si rivelò un difensore di straordinaria affidabilità e continuità. Ruvido ma sempre corretto e molto forte nel gioco aerea, sia in fase difensiva che nell’area di rigore avversaria.

Linea difensiva nella quale spiccò anche un grande Massimo Carrera che offrì un’interpretazione molto pragmatica del ruolo di libero, dimostrandosi più efficace come ultimo uomo piuttosto che impiegato come marcature puro. Forte nel gioco aerea, inesorabile nei tackle in scivolata, grande personalità per questo difensore che fornì un’importante solidità al castello difensivo della squadra.

E che dire della “favola” Moreno Torricelli, l’ex falegname scoperto dal Trap che “piallò” letteralmente tutto ciò che gli si parò davanti, con Lippi che lo utilizzò come vero e proprio jolly difensivo: libero, marcatore centrale e terzino, sia a destra che a sinistra.

Buona anche se non straordinaria la stagione dello stopper teutonico Juergen Kohler, leggermente condizionata da diversi infortuni di natura muscolare che gli impedirono di trovare quella continuità di rendimento che aveva fornito ai suoi primi anni di Juventus. Alla pari di quella di Sergio Porrini, l’ultimo grande investimento dell’era Boniperti, con il “Porro” che pur non giocando sempre titolare, ogni qual volta venne chiamato in campo rispose presente alla grande come in occasione dell’importantissimo gol a Dortmund.

Per terminare la disamina del reparto arretrato, buona fu anche la stagione di Robert Jarni, mancino croato di grande talento ma alquanto incostante, come spesso accade a quelli della sua terra. Con il terzino sinistro che offrì le sue migliori prestazioni nella seconda parte della stagione.

Passando alla zona mediana del campo, sarebbe un delitto non partire dal portoghese Paulo Sousa, sontuoso califfo del centrocampo e vero e proprio facitore di gioco della squadra. Condizionato da una fastidiosa forma di pubalgia fino a metà autunno, come si liberò dai problemi fisici che lo limitavano fece esplodere tutto il suo talento mettendo in mostra una straordinaria capacità di rubare palloni agli avversari distribuendoli poi con grande senso tattico, geometrie e una naturale capacità di organizzare la manovra.

Altra importante presenza in mezzo al campo fu quella dell’altro straniero, Didier Deschamps. Francese di origine basca, duro, ruvido. Nessun’attinenza tecnica con il suo illustre predecessore Michel Platini ma centrocampista di quantità straordinaria, specialista nel tackle in scivolata. Nazionale francese che, arrivando a Torino infortunato, si perse buona parte della stagione dovendo sottoporsi ad un intervento chirurgico in Finlandia da cui ci mise sei mesi buoni a riprendersi. Ma come poté rientrare in campo impiegò un battito di ali a dimostrare a tutti la sua importanza pur non essendo l’uomo-gol che qualche male informato si aspettava a Tortino.

Altro giocatore fondamentale per quella straordinaria stagione bianconera fu Angelo Di Livio, per tutti il “soldatino”. Tornante di destra, senza quella capacità di inventare e di saltare l'uomo in dribbling che possedevano le migliori ali del mondo ma grande “equilibratore”. Strepitoso nella capacità di aiutare il terzino schierato alle sue spalle in fase difensiva grazie a velocità, resistenza organica e una volontà d’acciaio. Un gregario di lusso proprio come lo fu Antonio Conte con Lippi che, proprio così come fece con Torricelli in difesa, lo impiegò un po’ in tutti i ruoli del centrocampo: mediano davanti alla difesa, quinto di centrocampo e mezzala di inserimento. Clamorosi i litigi del centrocampista di origine leccese con Marcello Lippi relativamente al suo impiego in campo ma senza mai smettere di fornire un rendimento di altissimo livello fatto di intensità, recuperi difensivi, capacità di spinta e attitudine all’inserimento in area avversaria e facilità ad andare in rete.

E infine l’attacco; l’arma in più di quella grande Juventus che sfruttando la nuova regola dei tre punti si affidò ad un gioco spregiudicato e votato appunto all'attacco, con almeno tre calciatori tra Gian Luca Vialli, Roberto Baggio, Fabrizio Ravanelli e Alessandro Del Piero sempre in campo, senza perdere equilibrio in fase difensiva.  Campioni quest’ultimi che ripagarono la fiducia concessagli dal tecnico viareggino con un’annata da incorniciare.

Gianluca Vialli fu il bomber capace di concretizzare la grande mole di lavoro che quella squadra riuscì a produrre segnando gol decisivi ma sacrificandosi al contempo per la squadra mettendo in mostra le sue doti di leadership a 360 gradi.

Fabrizio Ravanelli, partito come riserva non solo degli intoccabili Baggio e Vialli ma anche del giovane talento Alex Del Piero, grazie alla forza del suo carattere, alla sua volontà di ferro e alle sue indubbie qualità di goleador seppe ritagliarsi una stagione da protagonista assoluto non solo come subentrante ma anche come partner d’attacco di Gian Luca Valli. Così come protagonista lo fu Alessandro Del Piero il giovane dal grande talento che esplose proprio in quel campionato.

Ed infine ma non ultimo il capitano di quella squadra, Roberto Baggio, che vinse la prima serie A della sua carriera in un anno di grande sofferenza personale. Una stagione che non era partita nel migliore dei modi per il Divin Codino ancora in fase di recupero dall’infortunio occorsogli ai mondiali americani fino ad arrivare al grave infortunio occorsogli il 27 novembre 1994 nella partita Padova-Juventus. Guaio che lo tenne lontano dai campi di gioco per quasi cinque che fecero perdere a Baggio quella centralità aveva sempre avuto sia nelle Juventus di Maifredi che del Trap. Anche a causa del modulo di gioco dal momento che mister Lippi, dopo l’infortunio del dieci bianconero virò dall’iniziale 4-3-1-2 con Baggio schierato come trequartista dietro le punte, ad un più aggressivo 4-3-3 nel quale Baggio faticò a trovare la miglior collocazione non essendo né un centravanti né tanto meno un esterno.  Ma fu soprattutto il contratto, in scadenza proprio al termine di quella stagione, a creare più di un’insicurezza a Baggio. Con il Vicepresidente Roberto Bettega che non fece mistero riguardo alla mancanza di volontà da parte della Juventus di svenarsi per rinnovarglielo. Un avvertimento poco celato fatto pervenire dalla società bianconera al suo giocatore più prestigioso, che soltanto dodici mesi prima non solo festeggiava il "Pallone d' oro" ma era adulato e vezzeggiato dal mondo intero. Baggio incominciò ad annusare brutte arie, anche perché sotto la Mole non si era mai sentito totalmente apprezzato come invece gli era accaduto nei suoi anni fiorentini. Ed infatti al termine di quella stagione le strade fra il Divin Codino e la Juventus si separarono con Baggio che prese la strada di Milano per raggiungere i rossoneri allenati da Fabio Capello.

In ogni grande squadra i giocatori maggiormente ricordati sono i grandi goleador, i mirabolanti numeri dieci, le mezzali dai piedi buoni, i portieri para tutto, perché più di ogni altri attraverso le loro prodezze regalano gioie e spettacolo entrando a piedi pari nella memoria collettiva di ogni tifoso. Nessuna squadra al mondo però ha mai vinto senza un’altra tipologia di giocatori: i gregari. Quegli uomini “oscuri” senza i quali, tutti gli altri ruoli sarebbero poco o nulla. I celeberrimi “portatori d’acqua”, quelli che “fanno legna”, come si suol dire, e che fanno assaggiare i bulloni alle caviglie degli avversari. Quelli che corrono dal primo all’ultimo minuto, che sporcano la maglietta di fango e sudore, che le danno e le pigliano senza mai lamentarsi e che escono dal campo sena più un filo di fiato nei polmoni. Non sublimi da un punto di vista squisitamente tecnico, che non brillano di luce propria come le stelle di prima grandezza, ma straordinari nel mettersi al servizio della squadra senza avvertire la necessità di aver puntate su di loro le luci della ribalta.

E la prima Juve di Lippi ne aveva di gregari, eccome se ne aveva. Sia d’esperienza come Giancarlo Marocchi e Luca Fusi che, come giovani rampanti quali Alessandro Orlando, Alessio Tacchinardi e Corrado, Grabbi. Giancarlo Marocchi, jolly non solo del centrocampo ma capace di adattarsi ad un ruolo inedito per lui, quello del terzino sinistro, anche se le migliori prestazioni le offrì quando venne schierato al fianco di Paulo Sousa.

Luca Fusi, straordinario professionista che, pur in evidente fase discendente della sua parabola fisica e atletica, seppe riportare nello spogliatoio bianconero esperienza, onestà, intelligenza così come una straordinaria professionalità, senza concedersi né un lamento né una parola fuori posto quando mister Lippi decise di togliergli la titolarità del ruolo di libero a favore di Massimo Carrera.

Alessandro Orlando, giovane e talentuoso terzino sinistro che seppe dare un’importante contributo al gruppo squadra pur senza avere tanto a causa di più di una difficoltà sia nello spingersi fin sulla linea di fondo campo per crossare che a difendere sugli esterni d’attacco avversari.

Alessio Tacchinardi, che fu invece una delle rivelazioni di quella Juventus, un po’ centrocampista e un po’ libero moderno, di quelli che sanno far partire il gioco da dietro. E soprattutto bravo nel farsi trovare pronto ogni qual volta mister Lippi ebbe bisogno di lui sia al centro della difesa che come supporto al fulcro del gioco bianconero Paulo Sosa.

Ed infine Corrado Grabbi. Erano anni che un primavera bianconero non riusciva a trovare spazio in prima squadra, mentre il golden boy torinese di nascita fu capace di bagnare il suo esordio in A con un gol contro la Lazio all'Olimpico di Roma in una delle partite chiave della trionfale stagione bianconera. Giovane classe 1975 che pur avendo senso del gol, tiro, forza, potenza e corsa, non riuscì negli anni successivi ad avere quella luminosa carriera che pareva profilarsi per lui in quello straordinario esordio romano.

Uomini e calciatori dotati di classe, qualità, personalità, attaccamento alla maglia, che in quella stagione seppero offrire il meglio di sé anche e soprattutto grazie al condottiero che li guidava: Marcello Lippi. Il Paul Newman della panchina: bello e bravo.

Impressionante fu la rapidità con la quale riuscì a cambiare volto alla Juventus trasformandola in una vera e propria macchina da calcio conferendogli ritmo, identità, gioco d’attacco e soprattutto quella mentalità vincente che dalla fine del decennio d’oro di Giovanni Trapattoni nessuno era più riuscito a dare a Madama. Lippi che, convintissimo delle proprie idee, non si perse d’animo dopo l’avvio stentato della propria squadra dal momento che il gruppo mese dopo mese si andava modellando sempre più attorno alla sua idea di calcio. Dettami che prevedevano una squadra tonica, aggressiva, efficacie, spettacolare ed estremamente motivata.

Uno degli allenatori più vincenti della storia della Vecchia Signora, autore di un ciclo vincente durato complessivamente otto stagioni, con tredici trofei conquistati tra cui cinque scudetti, una Champions League ed una Coppa Intercontinentale.

 

 

 

 

 

 

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