FiloBianconero racconta la prima Coppa Intercontinentale della Vecchia Signora.

 


Tokyo non è solo la capitale del Giappone ma rappresenta l’undicesima città del mondo con poco meno di quattordici milioni di abitanti. In realtà è una megalopoli da oltre 40 milioni di persone tenendo conto della sua intera regione e non solo dall’area metropolitana. La gentilezza dei suoi abitanti, il sushi e il sashimi (i piatti forti della sua cucina), gli efficientissimi mezzi di trasporto, le tipiche architetture assai diverse da quelle occidentali. Questi e molti altri ancora, i tratti distintivi della città che nel 1985 fu scelta come sede per la disputa della ventiquattresima edizione del trofeo riservato alle squadre vincitrici della Coppa dei Campioni e della Coppa Libertadores: la Coppa Intercontinentale. Una storia affascinante quella delle sfide tra le più grandi d’Europa e del Sud America, fin dal suo esordio nel 1960. Partite giocate in catini “bollenti” soprattutto quelle disputate nel continente americano dal momento che fino al 1980 le squadre sfidanti si incontravano in una gara d'andata e in una di ritorno nei rispettivi stadi. Così come nella famosa edizione del 1969, quando al termine della gara di ritorno disputasti a Buenos Aires tra l'Estudiantes e il Milan, il rossonero d'origine argentina Nestor Combin fu arrestato per una presunta diserzione alla leva militare e liberato soltanto diverse ore dopo grazie all’interessamento della Farnesina. A sfidarsi in quel magico 1985 furono la Juventus di Giovanni Trapattoni, squadra esperta, matura, all’apice di uno straordinario ciclo vincente e l'Argentinos Juniors, squadra argentina di quartiere che solo l’anno precedente era riuscita a conquistare il suo primo titolo nazionale ed era arrivata a quella finale conquistando la sua prima Libertadores ai calci di rigore nello spareggio di Asunción contro l'America de Cali. Bianconeri a cui Boniperti aveva operato un profondo restyling nel corso dell’estate cedendo tre campioni del calibro di Zibì Boniek, Paolo Rossi e Marco Tardelli rispettivamente a Roma, Milan e Inter, sostituendoli con Michael Laudrup, Lionello Manfredonia e Aldo Serena. Il primo, uno dei migliori giocatori danesi di tutti i tempi, veniva soprannominato Il Principe di Danimarca per la sua eleganza nel muoversi in campo. Trequartista, seconda punta, ala destra, ala sinistra, la Juventus lo aveva acquistato a soli diciannove anni impressionata dalle doti di fantasia, creatività, intelligenza, capacità di assist, dribbling nello stretto, facilità nell’uno contro uno e tiro potente con entrambi i piedi di quel giovane predestinato. Danese che presentava il suo tallone d’Achille nella cattiveria agonistica tanto che Michel Platini lo definì come “Il miglior giocatore del mondo in allenamento”. Lionello Manfredonia, laureato in giurisprudenza, era un calciatore dotato di una straordinaria duttilità. Centrocampista nella primavera laziale, stopper in prima squadra e nuovamente centrocampista alla Juventus dal momento che Madama lo acquistò come alter ego di Marco Tardelli. Con il classe 1956 originario di Roma che si rivelò un gregario di lusso nel far coppia con Massimo Bonini nel rendere d’acciaio la mediana bianconera. Aldo Serena, granatiere d’area di rigore era una numero nove fisicato in totale controtendenza con i brevilinei attaccati che andavano di moda in quegli anni. Il Trap lo scelse proprio per quelle caratteristiche convinto che sarebbe stata la prima punta perfetta per una squadra dotata di grande qualità sulla trequarti come era la Vecchia Signora di quell’anno. Bianconeri che arrivarono alla gara di Tokyo a seguito della tragica notte dell’Heysel quando nella finale di Coppa dei Campioni del maggio 1985 a causa della follia omicida degli hooligans inglesi persero la vita trentanove persone (di cui trentadue italiani) e ne rimasero ferite oltre seicento. Juventus che aveva l’obbligo di sfatare il luogo comune dell’essere grande in Italia e debole fuori dal Bel Paese pur avendo conquistato negli otto anni precedenti una Coppa Uefa nel 1977, una Coppa delle Coppe nel 1984, una Supercoppa europea e Coppa Campioni nel 1985. Tokyo rappresentava quindi l’esame di laurea per la Vecchia Signora del tandem Boniperti – Trapattoni. Si giocò l’otto dicembre 1985 a mezzogiorno, le quattro del mattino in Italia, al National Olimpie Stadium, quello in cui nel 1964 vennero disputati i giochi della XVIII Olimpiade. Il tempo nella capitale giapponese quel giorno era pessimo, con il terreno di gioco intriso d’acqua da un’insistente pioggia. Precipitazioni che resero il terreno di gioco, già malconcio di per sé, al limite della regolarità con il pallone che offriva rimbalzi spesso imprevedibili. Juventus che si schierò con un moderno 4-2-3-1 che prevedeva Tacconi tra i pali, Favero terzino destro, Cabrini terzino sinistro, Brio stopper e Scirea libero. Massimo Bonini e Lionello Manfredonia cerniera di centrocampo con Massimo Mauro, Michel Platini e Michael Laudrup a muoversi sulla trequarti dietro l’ariete Aldo Serena. Alla faccia di chi aveva etichettato Giovanni Trapattoni come il più becero dei difensivisti. Argentini che, allenati da mister Yudica contrapposero il seguente undici: Vidallè, Pavoni, Domenech, Villalba, Batista, Olguin, Castro, Videla, Borghi, Commisso, Ereros. La partita si rivelò nervosa e bloccata almeno inizialmente, come peraltro storicamente lo sono la maggior parte delle finali. Con i sudamericani che, dimostrandosi tutt’altro che sprovveduti, cercarono di prendere in mano il pallino del gioco fin da subito. Dall’altra parte una Juventus sorniona, come da copione, che lasciò volentieri il possesso palla ai sudamericani senza soffrire più di tanto i tentativi degli argentini di passare in vantaggio per tutto il primo tempo. Il secondo tempo fu all’insegna dei gol annullati. Il primo fu quello che l’arbitro tedesco Rot negò a Michelino Laudrup per fuorigioco, il secondo agli argentini, ma fu il terzo quello più eclatante. Vale a dire la mancata realizzazione concessa a Platinì, che resterà scolpita nella memoria collettiva come una delle immagini più iconiche del calcio anni ’80. Uno dei più grandi gol annullati di sempre. Con il transalpino che dopo aver saltato due difensori palleggiandogli in faccia di destro e sinistro insaccò alle spalle del portiere argentino per quello che sarebbe stato uno dei gol più belli della sua carriera. Le Roi che, dopo aver esultato come un bambino pazzo di gioia, si lasciò andare ad una posa tra sconcerto e sconforto per un gol le cui cause dell’annullamento sono a tutt’oggi ancora sconosciute. Da un presunto fuorigioco passivo di Serena ad un gioco pericoloso di Platini stesso. In realtà quel gol era regolarissimo dal momento che nella dinamica dell’azione risultò evidentissimo come Aldo Serena non disturbò minimamente il portiere né tanto meno ostacolò il gioco. Così come Michel alzò leggermente la gamba ma senza che ciò potesse essere considerato gioco pericoloso. Furono gli argentini ad aprire le marcature con Ereros al 55° minuto, bravo a superare Tacconi con un morbido pallonetto su un lampo di Commisso. Sudamericani che vennero raggiunti al 63° dopo che un atterramento di Aldo Serena in piena area di rigore sudamericana causato da Olguin consentì a Michel Platini di segnare su calcio di rigore. Gli Argentini dimostrarono di possedere sette vite e al 75° si portarono nuovamente in vantaggio con Castro, rapido a concretizzare un assist del loro uomo di maggior qualità, Claudio Borghi. Ma soltanto dopo pochi minuti un ispiratissimo Michelino Laudrup riuscì prima a dribblare il portiere per poi andare a deporre la sfera in rete con un colpo da biliardo scoccato da una posizione estremante defilata. Un gol nemmeno immaginabile per i più. Non ci furono altri squilli di tromba nei secondi quarantacinque minuti e per decidere l'assegnazione della Coppa furono necessari i tempi supplementari. Trenta minuti nei quali entrambe le squadra, che si erano date botte da orbi nel corso dei tempi regolamentari, si trovarono un po’ sulle gambe rallentando il ritmo senza riuscire ad essere più pericolose. Fu così che dopo oltre due ore di emozioni, di football da sogno, si andò alla lotteria dei rigori, fattispecie mai accaduta fino a quel giorno in una finale di Intercontinentale. Calci da fermo che videro prevalere la Juventus per 6 – 4 con il club della famiglia Agnelli che riportò in Europa la Coppa Intercontinentale dopo sette edizioni di supremazia delle squadre sudamericane. Per gli uomini del Trap andarono a segno dagli undici metri Sergio Brio, Antonio Cabrini, Aldo Serena e Michel Platinì mentre fu solo Laudrup a fallire il calcio da fermo. Strepitoso si rivelò il portiere Tacconi che si esaltò neutralizzando pima il tiro di Batista e poi quello di Pavoni. Platini e Tacconi: i due match winner bianconeri. Il francese, eletto a miglior calciatore della partita, capace di andare ad inginocchiarsi addirittura davanti all’arbitro Roth, quello che poco prima gli aveva negato uno dei gol più belli della storia del calcio. E il perugino Stefano Tacconi, portiere dalla grandissima personalità non a caso soprannominato “Tarzan” e capace di esaltarsi proprio nelle gare decisive, esattamente come la fu quella finale. Tacconi che proprio quel giorno ottenne la definita consacrazione a grande portiere bianconero, status che nel corso degli anni successivi lo portò ad essere l’unico estremo difensore della Vecchia Signora ad aggiudicarsi tutte le cinque competizioni UEFA per club esistenti all’epoca. Tra le varie edizioni, quella di quel 1985 tra Juventus e Argentinos Juniors viene ancor oggi ricordata come la partita più bella ed emozionante delle varie finali di Coppa Intercontinentale.  Con l’Argentinos Juniors che non avendo né il blasone né le potenzialità di River Plate o Boca Juniors, vestendo i panni del “Davide” riuscì a rendere la vita estremamente difficile al “Golia” bianconero con quest’ultimo che riuscì ad imporsi solo ai calci di rigore malgrado alla vigilia Madama fosse data come la grande favorita.  Tutti contenti quindi. La Juventus che riuscì a mettere il sigillo al decennio d’oro di Giovanni Trapattoni sulla panchina bianconera e i sudamericani che tornarono a casa festeggiati come veri e propri eroi. Con l’allora ventunenne Claudio Borghi, talentuoso trequartista che con le sue “rabone” fece invaghire Silvio Berlusconi al punto tale da acquistarlo nel 1987 per il proprio Milan dei miracoli. Talento argentino che nella sua parentesi in prestito al Como non riuscì mai a brillare come in quel pomeriggio nipponico giocando solo sette partite senza segnare alcun gol. Esperienza che convinse il Milan a preferirgli come straniero Frank Rijkaard, rispedendo il sudamericano in patria senza troppi rimpianti. Juventus che grazie alla qualità dei propri giocatori, al loro carattere, al non arrendersi mai, fino alla fine, riuscì a portare nella propria bacheca l’unica Coppa fino ad allora mancante diventando il primo club al mondo ad avere conquistato almeno una volta tutti i trofei ufficiali della propria confederazione. Gaetano Scirea e Antonio Cabrini divennero i primi calciatori ad aver vinto tutte le competizioni UEFA per club allora esistenti così come Giovanni Trapattoni fu il primo tecnico ad ottenere l’analogo risultato. 8 dicembre 1985 messo nella memoria a lungo termine anche da due “comprimari “bianconeri: Luciano Favero e Stefano Pioli. Il primo, classe 1957, terzino marcatore che dopo aver fatto tanta gavetta fu acquistato da Boniperti per il dopo Gentile. Serie C, serie B, tre stagioni in A nell’Avellino per approdare a Torino a ventisette anni coronando il sogno di giocare nel club più importante d’Italia dividendo lo spogliatoio con i nazionali Cabrini, Tardelli, Rossi, Scirea, Platini e Boniek. Soprannominato il Baffo si garantì il titolone in prima pagina: “L'operaio che blocca Maradona” quando in una domenica di campionato il Trap lo incollò al Pibe de oro, con Favero che, autore di una superlativa partita, non fece toccare palla all’argentino. Uno di quei gregari che tanto sono stati importanti nei più grandi successi di Madama nel corso della sua storia. Favero che sotto la Mole vincerà uno scudetto, una Coppa dei Campioni, una Supercoppa Europea e anche una Coppa Uefa e questa Coppa Intercontinentale 1985. Il secondo, Stefano Pioli era un quasi esordiente classe 1965. Difensore capace di ricoprire tutti i ruoli della retroguardia anche se il miglior rendimento lo offriva nel ruolo di stopper. Acquistato nell’estate 1984 dal Parma, squadra nella quale emerse appena diciottenne, il giovane talento ducale si presentò al raduno di Villar Perosa come uno scolaretto al primo giorno di scuola accompagnato da mamma e papà essendo neopatentato. La sua fortuna fu quella di avere straordinari esempi da assumere come modelli. Proprio come Gaetano Scirea, il compagno di squadra che più di ogni altro lo prese sotto la sua alla protettrice, insegnandogli i trucchi del mestiere. Ciò che ancora gli faceva difetto per essere un giocatore in perfetto stile Juve glielo impartì Giampiero Boniperti facendogli tagliare i capelli e correggendogli anche il modo di vestire, troppo “casual” per il brand Juventus. Tanta panchina all’inizio per smaltire il salto dalla serie C di Parma ai massimi palcoscenici italiani e con il passare dei mesi spazi sempre più importanti. Proprio come in quel pomeriggio di Tokyo di trentasette anni fa nel quale il giovane Stefano Pioli subentrò al 64° minuto dei gioco proprio al suo mentore Gaetano Scirea giocando una gara da consumato veterano dei terreni verdi. Luciano Favero e Stefano Pioli. Due favole iconiche di tutto ciò che, più di ogni altra cosa, può rappresentare il sogno di ogni bambino che si avvicina al calcio. Inoltre, due messaggi portatori di straordinari valori. Quello di credere sempre in sé stessi e nelle proprie capacità perché prima o poi il lavoro e il sacrificio pagano e che i sogni, anche quelli più smisurati, se sufficientemente coltivati ed annaffiati possono diventare realtà.   


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