FiloBianconero racconta Omar Sivori: l’angelo dalla faccia sporca.
Il 1935 non solo fu l’anno in cui
nacque Porky Pig, il primo personaggio immaginario dei cartoni animati e dei
fumetti della Warner Bros capace di attirare il grande pubblico, ma anche quello
che sancì l’inizio della Guerra d’Etiopia per l’Italia, quando il tre ottobre
le truppe italiane di stanza in Eritrea varcarono il confine del paese africano
pur senza una dichiarazione di guerra ufficiale da parte del governo del Bel
Paese. Soltanto il giorno prima, il 2 ottobre 1935, dall’altra parte del mondo
a San Nicolás, uno storico “barrio” di Buenos Aires, una vera e propria città
quartiere a 200 chilometri dal centro della megalopoli argentina, nacque un
certo Enrique Omar Sivori. Un argentino dal sangue italiano con padre di
origini liguri e madre con discendenze abruzzesi. Famiglia numerosa la sua, in perfetta
tradizione sudamericana ed in linea con la società di quegli anni. Omar, il più
piccolo, aveva solo quattro anni quando morì il padre. Lutto che creò non poche
difficoltà all’intera famiglia Sivori, con i fratelli più grandi costretti a
trovarsi un mestiere per mandare avanti la baracca. Il cucciolo di famiglia fu
invece mandato a scuola, luogo mai particolarmente amato da questo scugnizzo
dotato di pochi centimetri, occhi e capelli neri, carattere difficile e pessimo
studente. Insieme ad alcuni compagni bigiava frequentemente le lezioni per
andare a divertirsi con il pallone, attrezzo che rappresentava per i giovani
argentini il passatempo più bramato. Giuoco del calcio che per il Sivori adolescente
rappresentava ben di più che un divertimento. Pur giovanissimo Omar aveva già
le idee piuttosto chiare riguardo al suo futuro: voleva diventare un calciatore.
Grazie al suo talento che si estrinsecava in un tocco di palla, morbido, dolcissimo,
fine, mai grossolano, riuscì ad approdare rapidamente alla sua prima squadra di
calcio. Il Teatro Municipal, di cui Sivori fu subito titolare. Oltre al talento
Sivori aveva un bel caratterino e tanta, tanta ambizione. La squadretta del
Teatro Municipal gli stava stretta. Lui sognava il River, il leggendario club
di Buenos Aires ai cui provini Omar si presentò emozionato al punto tale che la
sua prova fu tutt’altro che esaltante. Negativo, fu il giudizio che
sentenziarono i talent scout della squadra della capitale e fu solo grazie a Renato
Cesarini (grande ex bianconero) rimasto letteralmente folgorato da come quello
scugnizzo calciava il pallone che a Sivori fu data un’ulteriore possibilità di
mettersi in mostra. Seconda opportunità che Omar non sprecò incantando tutti
gli osservatori del River Plate che decisero di metterlo sotto contratto non
appena ebbe raggiunto la maggior età. Los Millonarios ("i Milionari")
con cui Sivori vinse tre campionati argentini tra il 1955 e il 1957 mettendo a
segno complessivamente trenta reti con prestazioni che gli consentirono di
vestire la “dieci” dell’Albiceleste. “Seleccion” con la quale vincerà la Coppa
America del 1957 insieme ai fuoriclasse Maschio e Angelillo, con cui formò il trio
delle meraviglie soprannominato “Gli Angeli dalla faccia sporca”. Siamo alla
fine anni ‘50, quando mezza Italia incominciò a muoversi in FIAT grazie al boom
economico che, come una grande onda, stava investendo il nord del paese. In casa
bianconera dopo cinque stagioni di risultati modesti l’allora Presidente, il
dottor Umberto Agnelli, avvertiva la necessità di rilanciare la Juventus anche attraverso
l’acquisto di qualche giocatore di grido, di quelli capaci sia di fare punti
che spettacolo. Madama, tra i vari osservatori sparsi per il mondo, aveva anche
Renato Cesarini, il mentore del giovane Sivori. Cesarini, nato in Italia nel
1906 ma emigrato piccolissimo con la famiglia a Buenos Aires divenne nel paese sudamericano
un ottimo calciatore che la Juventus ingaggiò nel 1929 facendone una sua colonna
portante. Uno dei maggiori protagonisti della famosa Juve del Quinquennio che
dominò il calcio del Bel Paese nella prima metà degli anni ‘30. Dopo aver
terminato la carriera, diventato uno degli uomini di fiducia del club
bianconero oltreoceano, fece pervenire a Torino un fascicolo particolarmente
corposo su un numero dieci dal baricentro basso, dotato di una classe infinita,
un sinistro che cantava e una straordinaria capacità di mettere insieme arte e
pragmatismo. Omar Sivori. Juventus che dando credito al suo fido talent scout
offrì al River 10 milioni di pesos, per “El Cabezon”. Centosessanta milioni di
lire, una cifra enorme per quegli anni. Il club argentino, convinto di fare un
buon affare non ebbe esitazioni. Accettò la magnanima offerta della Vecchia
Signora e con quei soldi finanziò il parziale rifacimento de El Monumental, lo
stadio che dal 1938 ospitava le gare interne del River Plate. Un affare anche
per la Juventus considerando Omar Sivori fu uno dei pochi “eletti” capaci di
cambiare il calcio. Con Sivori la Vecchia Signora vinse subito lo scudetto
grazie ad un undici di tutto rispetto condito da un super attacco che combinava
il talento e la fantasia di Sivori, la classe di Giampiero Boniperti e la
straripante fisicità del “nove” gallese John Charles. Sivori fin dai primi
giorni del suo arrivo in Italia fece vedere di cosa era capace. A differenza
dei tanti dribblomani innamorati della sfera e della giocata fine a sé stessa
Omar sapeva anche essere essenziale. La scuola argentina gli aveva insegnato
che il divertimento, lo spettacolo, il numero ad effetto, erano sono sì cose
importanti, ma che ancor di più lo era vincere. Il suo era un football
mefistofelico, sprezzante, perfido, concepito per irritare i difensori e far
sognare il pubblico. Sivori era imprevedibile, bizzarro, istintivo, con le sue serpentine
in micro-porzioni di campo così come in giocate di prima intenzione di chi vede
cose che altri non riescono a scorgere. Palla a terra, al volo, finte di corpo
con il pallone da una parte e il diretto marcatore dall’altra, assist al bacio,
tiro, e tanti gol. Il Maradona prima di Maradona, per l’imprevedibilità delle
sue giocate e l’Ibrahimovic prima di Ibra per il suo spirito di provocazione. Sì,
perché l’argentino provoca assai. Lo faceva attraverso dribbling, tunnel e
giocate il più delle volte tese ad umiliare l’avversario di turno. Con la specialità
della casa rappresentata dal gol umiliante, quello che mirava a prendere per i
fondelli gli avversari che essere stati saltati come birilli (portiere
compreso) venivano attesi dal “dieci” sulla linea di porta, che depositava la
palla in rete un battito di ali prima che quest’ultimi potessero togliergli il
pallone dai piedi. A differenza dei dieci classici, talentuosi ma tutt’altro
che cuor di leone, Sivori quando c’era da menare, menava. Anzi, era il primo a
darle attraverso il fallo sistematico nei confronti del proprio marcatore
mettendo in mostra un coraggio di matrice indio quasi sprezzante. Lo faceva non
solo senza parastinchi ma anche con i calzettoni abbassati, gettando un ulteriore
provocazione nella sfida con gli avversari. Omar Sivori: il classico esempio di
genio e sregolatezza. Si allenava poco, male e quando ne aveva voglia. La
fatica in allenamento nella sua concezione era da lasciare ai portatori
d’acqua, ai gregari. Lui si sentiva come uno di quegli aristocratici che doveva
essere servito e riverito. Fumo, alcool, cibo spazzatura, tutto ciò che non
dovrebbe fare uno sportivo erano i “leitmotiv’ delle sue giornate. E per
rincarare la dose la sera amava fare tardi, spesso in compagnia di bellissime
donne, con il fascino femminile che su Sivori suscitava un abbondante charme. Particolare
fu il rapporto tra il funambolo argentino e Gianni Agnelli, fatto di amore e
odio. Legame che ebbe inizio con la solita sfida dell’argentino all’autorità
costituita, in quel caso rappresentata proprio dall’Avvocato. Patron bianconero
che, come tradizionalmente faceva con i suoi calciatori, lo punzecchiava
spesso, facendogli presente che sapeva usare solo il piede sinistro. Sivori gli
rispose con la sua tipica irriverenza. Poco prima dell’inizio di un
allenamento, con l’Avvocato a bordo campo, El Cabezon prese un pallone e
palleggiando in faccia al “patron” bianconero gli regalò più giri di campo con
il pallone incollato al suo magico mancino senza perderne mai il controllo.
Concludendo la sua performance con testuali parole: “Secondo lei, cosa ci
dovrei fare con il destro?”. Sivori per Agnelli era considerato una sorta di
vizio, un lusso per persone dal gusto raffinato e accostumate dal calcio pragmatico
che stava avanzando. L’Avvocato lo amò senza sì e senza ma, anche se da un
punto di vista prettamente calcistico all’argentino preferirà sempre campioni dalla
rinomata professionalità come Michel Platini o Alex Del Piero. Fuoriclasse dotati
sì di grande talento ma portatori anche di atteggiamenti decisamente più in
stile Juventus, meno tracotanti e non così tanto fuori dal coro come li erano quelli
di Sivori. La città di Torino, la Juventus, l’Italia intera si innamorarono
follemente di questo genio e sregolatezza della pedata che nel 1960 conquistò
titolo di capocannoniere con 28 gol in 31 partite, e l’anno successivo il Pallone
d’oro. Maglia della Juventus Sivori abbandonò nel 1965 causa dissidi con
l’allenatore Heriberto Herrera, che al suo arrivo a Torino dichiarò: “Sivori
come Coramini”. Con il tecnico paraguaiano che prendendo ad esempio il modesto
difensore bianconero classe 1944, volle inviare un più che esplicito messaggio
al campione argentino. Sergente di ferro, Herrera, ingaggiato dai bianconeri per
ridare ordine e disciplina ad un gruppo di giocatori che, seguendo il pessimo
esempio di Sivori, aveva perso la cultura del lavoro, allenandosi poco e male. Con
il particolare per nulla trascurabile che Sivori, pur alleandosi poco e facendo
vita tutt’altro che d’atleta, una volta in campo faceva la differenza. Gli
altri no. Vecchia Signora nella quale Sivori disputò complessivamente 253 gare
mettendo a segno ben 167 reti, vincendo tre scudetti, tre Coppe Italia e come detto
pocanzi aggiudicandosi il Pallone d’Oro nel 1961. Omar Sivori, l’inventore del
football impossibile. Un artista del calcio, un clown del pallone, un folletto
un po’ mascalzone ma geniale che danzava, recitava con il pallone. Tanto immenso
come giocatore quanto eccessivo, spesso insopportabile come uomo. Tormentato,
impulsivo, litigioso, refrattario alla disciplina al punto da litigare con
tutti alla Juventus, Giampiero Boniperti compreso. Senza parlare di avversari e
arbitri con quest’ultimi che gli comminarono ben trentatré turni di squalifica
nei suoi dodici anni italiani. Per Sivori il calcio era divertimento. Per sé
stesso e per gli spettatori che pagavano per assistervi. Spettacolo che il
sudamericano regalava grazie a quel sinistro che più che un piede pareva avere
la sensibilità di una mano, così come a quell’andatura caracollante, a quei
polpacci potenti e a quei calzettoni abbassati, portati allo stesso modo di quando
incominciò a tirare calci ad un pallone di stracci nei polverosi campi dei sobborghi
argentini.



Commenti
Posta un commento