FiloBianconero racconta Michel Platini… Le Roi.
Diventare un
calciatore professionista, un campione che sfonda le reti, facendo innamorare
migliaia e migliaia di tifosi e tifose in ogni angolo del mondo regalando
emozioni è il sogno di ogni piccolo sportivo. La fantasia che diventa benzina,
il propellente indispensabile al motore della passione per marciare a pieni
giri. Ecco perché più che un diritto sognare dovrebbe essere un dovere. E
quando si esercita l’arte onirica la cosa migliore è di farlo in grande, il più
in grande possibile. Esattamente ciò che accadeva ad un giovane francese di
nome Michel che non solo sognava di fare il calciatore ma che fantasticava di
diventare Pelè, il più grande di sempre. Bramava talmente in grande che quando
si recò a ritirare la sua prima carta d’identità chiese all’impiegato comunale se
alla voce “professione” fosse possibile indicare “calciatore”. Fu suo padre,
grande appassionato di football, a mettergli il pallone fra i piedi fin dalla
più tenera età. I genitori hanno il dovere di sostenere i sogni dei propri
figli standogli accanto, fornendo loro sicurezza, protezione e mettendogli a disposizione
tutti i possibili strumenti per consentir loro di poter realizzare i propri
obiettivi. Aldo Platinì, papà di Michel, era un professore di matematica ma
ancor prima un calciatore mancato essendo stato un discreto libero per poi
diventare allenatore dei dilettanti dello Joeuf. Papà Platinì fu anche il primo
mister dell’undicenne Michel quando quest’ultimo passò a correre dietro ad un
pallone in terreni erbosi anziché nello spiazzo duro e polveroso posto dirimpetto
al bar del nonno Francesco. Di origine Italiane quest’ultimo, della provincia
di Novara. Un muratore che andò a cercare fortuna oltralpe insieme fratelli e
sorelle sistemandosi proprio a Joeuf, dove negli anni successivi nacquero il
padre di Michel e la sorella Martina. Jouef, un paese di minatori a cinquanta
chilometri da Nancy. Nebbia, fuliggine, case grigio scuro e strade di color
pece. Francesco Platini fu uno di quei migranti italiani che riuscirono a fare
fortuna. Lavorò venti ore al giorno per mettere da parte i franchi francesi necessari
per aprire un bar, «Le Café des Sports» di Joeuf. Un locale che straripava di
italiani, quelli che erano arrivati in Francia dal bel paese proprio come nonno
Francesco per sbarcare il lunario, spaccandosi la schiena nelle rigogliose miniere
della regione. Una famiglia ammirevole quella dei Platinì, composta da onesti
lavoratori e capace di garantire al giovane Michel un’infanzia serena, fatta di
famiglia, libertà, pallone, strada e bar del nonno nel quale si giocava a scopa
e si parlava di calcio. Michel eccelleva in ogni sport ma era decisamente meno
bravo a scuola dove fin dall’elementari si fece notare per il caratterino
ribelle così come per il moto perpetuo che lo permeava. A dodici anni papà Aldo
lo portò a vedere il grande László Kubala, che proprio in quegli anni dispensava
le ultime pennellate della sua straordinaria classe sui terreni verdi francesi.
Michel venne letteralmente rapito dalla classe dell’attaccante ungherese di
origine slovacca e da quel giorno lo elesse a suo modello. Grande giocatore il
magiaro, trentaduesimo nella speciale classifica dei migliori calciatori del XX
secolo pubblicata dall'IFFHS nel 2004 e al contempo più “umano” e raggiungibile
rispetto al Dio del calcio Pelè. Michel
però non diventerà mai né come Pelé né come Kubala. Nel suo Karma era scritto
che dovesse diventare Michel Platini e basta. Unico e irripetibile, proprio come
lo sono tutti i fuoriclasse nel loro modo di essere artisti della pedata. Platinì
cresceva poco a differenza dei suoi coetanei al punto da venire soprannominato “le
nain”. Poco fisico ma tanto talento, con papà Aldo che per consentire a Michel
di poter esplodere tutte le sue doti lo faceva palleggiare a piedi scalzi sulla
spiaggia di Perros Guirec, in Bretagna, scimmiottando i calciatori brasiliani che
proprio attraverso quel tipo di esercizio eseguito sulle spiagge di Copacabana
e di Ipanema diventavano funamboli del pallone. Fino a quando tutto d’un colpo,
in solo dodici mesi, il quattordicenne Michel ammucchiò dieci centimetri d’altezza.
Levatura antropometrica che gli consentì di presentarsi nel maggio del 1969 ad
un provino per selezionare i migliori giovani calciatori francesi. Esame non
risultò particolarmente entusiasmante, per usare un eufemismo. Esattamente come
accadde tre anni dopo quando all’allora diciassettenne Platinì fu diagnosticata
una modesta capacità polmonare che parve sbarrargli la strada verso il calcio
dei grandi. Ma così non fu e nel 1972 Michel Platini firmò il suo primo
contratto da professionista con il Nancy. 1972, l’anno in cui Bill Gates e Paul
Allen fondarono la Traf-O-Data, azienda che nel tempo diventerà la Microsoft e
anno che diede il via alla «vie en rose» per il campione francese. Nancy,
l’incantevole cittadina di poco più di centomila abitanti situata fra le
colline del nord-est della Francia, che Michel ricorderà per sempre con occhi lucidi
e voce tremante. Nancy con il suo Stade Marcel-Picot nel quale Michel iniziò ad
esercitarsi con quelle sagome in legno attraverso cui perfezionò uno dei suoi
principali marchi di fabbrica: il calcio di punizione a scavalcare la barriera.
Nancy nella quale Platinì debutto in prima squadra il 3 maggio del 1973 in un Nancy-Nimes
che si concluse con il risultato di 3-1 da cui prese il via la sua leggendaria
carriera. Nancy che più che una squadra era una sorta di grande famiglia nella
quale interpretare la professione di calciatore rappresentava più un
divertimento che un mestiere. In quell’ambiente sano e dal sapore rurale Michel
divenne uomo. I muscoli erano sempre quelli, nulla di che, tanto che ad
osservarlo bene non pareva proprio un atleta. Ma i piedi e il cervello erano magici.
Due attributi che o li hai o non li hai e che nessuno ti può insegnare. Il “mingherlino”
Michel conquistò l’affetto dei tifosi così come l’attenzione degli addetti ai
lavori e la Coppa di Francia nella stagione 1977/’78. Controllo di palla
perfetto e un piede destro capace di esecuzioni sopraffine le specialità della
casa. Con la caviglia destra che fu croce e delizia per tutta la carriera di
Platini. Croce a causa dei dolori continui che gli procurava causa una frattura
patita da giovane mal curata. Delizia grazie al piede che, essendo rimasto
lievemente aperto una volta recuperato dall’infortunio, andava a creare un angolo
innaturale ma capace di consentirgli di dare quel particolare effetto al
pallone che gli consentiva di battere le punizioni alla sua maniera. Coppa di
Francia edizione 1977/’78 che rappresenterà l’ultimo trofeo di Platinì a Nancy
dal momento che il St. Etienne, in quegli anni il club di riferimento del calcio
transalpino, lo acquistò dopo l’ottimo mondiale di Argentina ’78. Rassegna
intercontinentale attraverso cui Platinì si fece conoscere dal grande pubblico
anche fuori dai confini nazionali. Indossando la casacca verde del Saint
Etienne Platini vincerà lo scudetto nella stagione 1980/’81 da leader
indiscusso. L’intera Francia era ai piedi di quell’ex ragazzino diventato uomo.
L’Inter di Fraizzoli gli mise alle calcagna uno dei suoi ministri degli esteri,
Giulio Cappelli, che approfittando dell’ammirazione che Platinì nutriva nei
confronti di Sandro Mazzola (uno dei suoi idoli d’infanzia) gli fece firmare un
precontratto. Preliminare che non fu mai rettificato. Prima, a causa del blocco
delle frontiere, norma che non consentiva ai club italiani di tesserare
calciatori stranieri. E poi, una volta aperte le “dogane” del calcio a causa
dell’alone che contornava Platinì con tanti che lo dipingevano come un giocatore
fragilissimo con le caviglie di cristallo. Rumors che veri o meno che fossero
poco importavano al grande pubblico dal momento che quando il francese si
trovava in mezzo al terreno verde dipingeva calcio. Il brutto anatroccolo era
diventato cigno. Un calciatore che senza possedere quel fisico statuario dei
più grandi della pedata era diventato un campione. Celeberrimi gli scontri tra
Platini e la maggior parte dei suoi allenatori di quei suoi primi anni nel
calcio francese, con i vari tecnici che lo vedevano come un “nove” mentre lui
si sentiva un “dieci”. Un califfo del centrocampo, di quelli che partono da
lontano e oltrechè far girare la squadra e dispensare assist ai propri
attaccanti, sono capaci loro stessi di inserirsi in area di rigore e segnare
come i più prolifici centravanti. Michel Platini diventò una favola vivente e
le sue gesta arrivarono anche in Italia. Paese quest’ultimo che per Platinì
rappresentava qualcosa di più che una nazione come le altre, grazie alle reminiscenze
delle vacanze estive piemontesi trascorse a casa dei parenti rimasti in Italia.
Il grande psicanalista Carl Gustav Jung nel 1952 introdusse il concetto di
sincronicità, secondo cui la maggior parte degli eventi più significativi della
nostra vita accadono per una ragione. In altre parole, nulla accade per caso. Così
come non fu un caso che comodamente seduto in poltrona ad assistere in TV a Francia-Italia
del 23 febbraio 1982, vi fosse un grande appassionato di calcio, l’Avvocato
Gianni Agnelli, estroso studioso di football, perennemente fanciullo,
appassionato d’arte e di tutto ciò che era bello. Platinì quella sera al Parco
dei Principi mise in mostra un calcio sontuoso e l’Avvocato, che ne intuì il
genio, se ne innamorò fino a volerlo fortissimamente per la sua Juventus convinto
che Platini fosse il giocatore perfetto per marciare sull’Europa oltrechè che per
continuare ad essere padroni in Italia. Se ne interessò quella sera stessa e
quando e scoprì che Platini era in procinto di firmare per i Racing Club di
Parigi, telefonò direttamente al proprietario del club, Jean-Luc Lagardère,
padre della casa automobilistiche francese Matra chiedendogli di fare un paso
indietro riguardo all’acquisto del talento francese. Cosa che l’imprenditore
francese fece. Un minuto dopo Agnelli ne parlò con Boniperti e con Trapattoni,
trovandoli d’accordo con la sua idea. La Juventus, la Signora del calcio,
stimava questo dieci francese e lo voleva, a tutti i costi. Fu così che dall’Ufficio
di Giampiero Boniperti partì la telefonata a Platinì, che non solo era già
stato contattato dal Racing Club di Parigi, dal Real Madrid, dal Bayer Monaco e
dall’Inter ma soprattutto dal club inglese dell’Arsenal che lo aveva già
incontrato in un Hotel di Saint Etienne, con i Gunners che si erano convinti di
averlo già portato a Londra. Michel, incuriosito da quella telefonata partì sottotraccia
alla volta di Torino accompagnato da Bernard Genestar, professionista che
nell’epoca in cui non esisteva la figura del procuratore ne curava comunque
degli affari. Nella sede dei bianconeri ad attenderlo c’era Giampiero
Boniperti. Sette ore di durissima trattativa con l’osso duro piemontese che a
tempo di record riuscì a chiudere l’operazione pagando il cartellino di Platinì
centoquarantotto milioni di litre. Una cifra importante per quegli anni ma si
sa, l’aspetto finanziario per l’Avvocato ha sempre rappresentato l’ultimo dei
pensieri quando desiderava veramente qualcosa o qualcuno. E Platinì
rappresentava il perfetto correlato all’idea di calcio dell’Avvocato: divertimento,
efficienza, efficacia, spontaneità. Con l’unica e irripetibile capacità di
Michel di affrontare il football con la stessa eleganza, spensieratezza ed
ironia con cui andrebbe fronteggiata la vita terrena. Operazione che lasciò esterrefatti
i più grandi club europei che avevano offerto al giocatore ingaggi nettamente
superiori a quelli offerti dalla Vecchia Signora. Con Platini che, ammirato
dallo stile del presidente juventino e dalla sua abile risolutezza si era convinto
che non vi fosse luogo migliore per giocare al calcio che l’Italia. Paese
quest’ultimo che, rappresentando l’origine dei suoi nonni, nativi di Agrate
Conturbia, un piccolo centro del Novarese, emanava in lui grande fascino. C’era
un solo problema da risolvere per mettere sotto contratto Platinì. Il numero di
stranieri che ogni squadra poteva ingaggiare: due. Con il club piemontese che
aveva già acquistato da alcuni mesi il polacco Zibì Boniek e aveva già in casa
l’ottima mezzala irlandese Liam Brady. L’ultimo giorno utile per tesserare il
secondo straniero per la stagione 1982/’83 era il 30 aprile 1982, con la
Juventus in piena bagarre scudetto impegnata in un testa a testa all’ultimo
sangue con la Fiorentina di Picchio De Sisti. Fu così che Boniperti a tre
giornate dalla fine del campionato fu costretto a sacrificare l’irlandese
prelevato dall’Arsenal soltanto due anni prima per far spazio alla stella
francese. Liam Brady che oltre ad essere quel buonissimo calciatore che tutti
avevano ammirato sul terreno di gioco si rivelò uno straordinario
professionista dal momento che, pur consapevole di essere stato scaricato da
Madama, giocò le ultime partite della stagione senza alcun calo di rendimento ma
soprattutto realizzando il 16 maggio 1982, nell’ultima decisiva partita di
Catanzaro il rigore che valse alla Juventus vittoria e scudetto. Michel arrivò
in Italia nell’estate del 1982 con la moglie Christele e sue due bimbe,
piazzandosi in un’accogliente villetta sulla collina di Torino, dopo aver
firmato un contratto per due anni con opzione su un terzo anno. Si sa quanto
siano impattanti le fatiche di un Mondiale nelle sorti della stagione
successiva e il Mundial di Spagna ’82 aveva scaricato le pile ai tanti
bianconeri che vi avevano preso parte, Platini compreso. Con il transalpino
alle prese sia con l’inserimento tecnico e ambientale in un calcio diverso dal suo
che con le gelosie dei compagni che anziché chiamarlo Michel lo chiamavano “il
Francese”. Tutto ciò aggravato dalla fastidiosa forma di pubalgia che da tempo
attanagliava Michel impedendogli di rendere al massimo. Una serie di elementi
che non resero particolarmente limpida l’alba della sua prima esperienza nel
nostro paese. Il primo gol “italiano” Platini lo segnò il 22 agosto 1982 in un
Juventus Pescara di Coppa Italia con una realizzazione di pregevole fattura.
Pallonetto a scavalcare i difensori e tocco finale al volo d’esterno destro a
beffare il portiere degli abruzzesi. Con destino opposto il suo esordio in
campionato che vide i bianconeri sconfitti inaspettatamente per 1-0 dalla
neopromossa Sampdoria. Platinì quel giorno fu il peggiore in campo a differenza
dell’irlandese Liam Brady, autore di una grande partita dopo essere stati
giubilato solo pochi mesi prima da Madama proprio per far posto al fuoriclasse
transalpino. Platinì che fu autore di prestazioni in grigio scuro anche nelle
gare successive con la critica che non esitò a metterlo sul banco degli
imputati. Più di un addetto ai lavori iniziò a parlarne come di un lusso che la
Juventus non poteva permettersi. E persino il Presidente nerazzurro Ivanoe
Fraizzoli manifestò apertamente la propria contentezza per aver lasciato cadere
l’opzione per l’acquisto del francese dichiarandosi al contempo entusiasta
dell’arrivo in terra meneghina della mezzala teutonica Hansi Müller. La realtà
era ben diversa. I segni lasciati dal mondiale appena terminato avevano mandato
in tilt l’intera Juventus, con la squadra che stava offrendo un rendimento
nettamente inferiore alle attese. Anche i fuoriclasse soffrono e Platini
consapevolizzò fin da subito che la sua avventura nella nostra serie A non
sarebbe stata una passeggiata di salute. Così come è possibile che qualche pensiero
di mollare tutto e tornare nella comfort zone rappresentata dal Saint Etienne transitò
nella testa del francese. Ma Michel è un orgoglioso, e il ritorno in Francia
sarebbe stato per lui una grave sconfitta. Non roba per lui. Pur nervoso, al
punto da arrivare a litigare con mister Trapattoni accusandolo di mettere in
campo la squadra con un atteggiamento troppo attendista, si rifugiò nel lavoro
riesumando gli anni dell’adolescenza quando si allenava con razioni doppie per
supplire a ciò che madre natura non gli aveva concesso. Contestualmente si
rivolse ad un luminare dell’ortopedia per curare la pubalgia e non appena
quest’ultima incominciò a mollare la presa incominciò a tutti a far vedere chi
era il vero Michel Platinì. La sua rinascita fu merito anche di una felice
intuizione di Trapattoni che tolse le chiavi del centrocampo a Beppe Furino
(sostituendolo con il giovane Massimo Bonini) consegnandole proprio a Platinì. Anche
se in realtà voci maligne sussurrarono che fu solo grazie all’intervento dell’Avvocato
Agnelli in persona che la regia bianconera venne messa nei sapienti piedi del francese.
Quel che è certo è che Agnelli aveva una vera e propria venerazione per lui. Il
giocatore che, forse, più di ogni altro, ha amato per la bellezza del suo calcio
di cui apprezzava la classe, la velocità di pensiero, l’astuzia e non per
ultima la sua capacità di ironia in campo e fuori. Nel girone di ritorno della
sua prima stagione sotto la Mole ci fu lo switch. La pubalgia stava diventando
solo un ricordo, il morale era risalito e Platinì cominciò a pilotare la sfera
di cuoio con i suoi proverbiali lanci di settanta-ottanta metri, così come a
dirigere i suoi compagni di squadra promulgando il suo calcio. E, particolare
non trascurabile, a segnare. Di piede, di testa, al volo, su punizione, dagli
undici metri, di forza così come di scaltrezza con la maggior parte degli
addetti ai lavori che posizionarono Platini tra i più grandi di sempre alla
pari di fuoriclasse quali Pelè, Eusebio, Beckenbauer, Cruijff, Di Stefano. Così
fu che, con quattordici reti in nove partite, diventò capocannoniere trascinando
la Juventus alla finale di Coppa dei Campioni di Atene contro il modesto
Amburgo, gara in programma il 25 maggio 1983. Giorno che vide muoversi dall’Italia
per la capitale ellenica oltre sessantamila tifosi di Madama per assistere ad
una delle più clamorose debacle bianconere con una Juve irriconoscibile, mai in
partita che fu battuta per 1-0 da un goal di Felix Magath. Dopo Atene arrivò il
secondo switch di Platinì che, avendo capito tutto della Juventus e del calcio
italiano, inanellerà un’incredibile striscia di vittorie convincendo tutti e
lasciando la sua inconfondibile importa in ogni gara. Coppa Italia contro il
Verona segnando due goal, e Mundialito per club a San Siro furono i prodromi di
una stagione bianconera 1983/’84 giocata da assoluto protagonista. Stagione che
vide un ampio rinnovamento operato da Giampiero Boniperti. Fuori i grandi
vecchi Zoff, Bettega e Furino e dentro Stefano Tacconi, Domenico Penzo e
Beniamino Vignola. Con Platinì che non solo si aggiudicherà il suo primo
scudetto italiano ma bisserà il titolo di capocannoniere, vincerà il suo primo
Pallone d’Oro e a Basilea, il 16 maggio 1984, conquisterà insieme ai suoi
compagni la Coppa delle Coppe superando per 2-1 il Porto. Nella stagione
successiva, 1984/’85, magra la pesca in campionato con la Juventus che si classificò
al sesto posto, fallendo anche la qualificazione in Europa. Cu furono però
anche note liete rappresentate proprio da Platini che per la terza volta
consecutiva si laureò capocannoniere della serie A con diciotto reti e dal cammino
in campo Internazionale. Vittoria della Supercoppa UEFA contro il Liverpool il
16 gennaio 198, al Comunale di Torino con Le Roi che portò per mano Madama alla
terza finale europea in tre anni. La finale di Coppa dei Campioni, contro il
Liverpool, in programma all'Heysel di Bruxelles, il 29 maggio 1985. Una serata
di festa che si tradusse in uno dei peggiori drammi dello sport mondiale con i
suoi 39 morti e oltre 200 feriti a causa della follia assassina degli hooligans
inglesi. Un’ora circa prima del fischio d’inizio della gara stessa la parte più
facinorosa della tifoserie dei Reds si spinse verso il tristemente famoso
settore Z occupato da pacifici tifosi bianconeri che, costretti ad arretrare,
si ammassarono contro il muro di contenimento della fatiscente struttura belga
causandone il crollo. Il risultato finale fu quello di 39 persone che nel
tentativo di cercare una via d'uscita dalla furia omicida di quei delinquenti
d’oltre Manica vennero schiacciate, calpestate e uccise. Quella sera si giocò
comunque. Forse fu l’unica scelta possibile per prevenire disastri ancor più
gravi. Platinì segnò il gol vittoria su calcio di rigore ma da quella sera dentro
Michel si spense qualcosa con il campione transalpino che uscì con l’anima
sfregiata da quell’esperienza. A stagione ultimata Platinì partì per le vacanze
con il disgusto per quello sport che tanto aveva amato fin da bambino. Demoralizzato,
abbattuto, in crisi, bisognoso di staccare la spina e di interrogarsi sul significato
di ciò che erra accaduto in quella maledetta serata fiamminga. Nell’estate del
1985 fece ritorno a Torino per unirsi ai compagni per il ritiro di Villar
Perosa ma con poca voglia di calcio e a stagione iniziata annunciò al mondo intero
il suo malessere parlando apertamente di voglia di ritirarsi pur avendo solo
trent’anni. Perderà smalto a livello realizzativo ma l’8 dicembre 1985 a
Tokyio, segnando il calcio di rigore decisivo, vincerà con la Vecchia Signora
la Coppa Intercontinentale al termine di una straordinaria partita contro l’Argentinos
Juniors. Trofeo che gli rimboccò il serbatoio della serotonina portandolo a
vincere il terzo pallone d’oro, a condurre Madama al suo ventiduesimo scudetto
e a rinnovare il contatto con la Juventus rinunciando alla corte di Milan,
Napoli così come di quella dei principali club europei per la gioia di tutto il
popolo bianconero. Contratto siglato prima di apprendere che Giovani
Trapattoni, il tecnico con cui Michel aveva creato un legame capace di fare le
fortune della Juventus, aveva deciso di ascoltare le sirene nerazzurre
trasferendosi sulla panchina dell’Inter. Rapporto di “amore e odio” tra i due
con il Trap che faceva il finto sergente di ferro con lui, concedendogli
privilegi che altri non potevano permettersi perché poi il francese in campo
gli faceva vincere le partite. Al posto del Trap arrivò Rino Marchesi dal Como
con La Juventus che chiuse la stagione al secondo posto staccata di tre punti
dal Napoli di Diego Armando Maradona.
Male anche in Europa, eliminati agli ottavi dal Real Madrid così come
fuori ai quarti in Coppa Italia per opera dei cadetti del Cagliari. Fu quello
il canto del cigno di Michel Platini che con la maglia bianconera sporca,
fradicia e tenuta fuori dai pantaloncini, in un triste 17 maggio 1987 al
termine di Juventus Brescia annunciò il suo ritiro dal calcio giocato all'età
di 32 anni. Lo fece sotto una pioggerellina insistente ma utile a velare sia le
sua lacrime che quelle di ogni suo tifoso, con l’intero mondo bianconero
consapevole di aver perso forse il fuoriclasse più fulgido dell'intera storia di
Madama. I tifosi presenti sugli spalti del Comunale applaudirono senza
soluzione di continuità un Le Roi emozionato e stanco. Stanco per i sempre più frequenti
problemi fisici ma soprattutto per aver perso la voglia di soffrire, di sudare,
di migliorarsi. Non era vecchio, ma usurato e abulico. Un pittore che aveva
terminato i colori necessari a dipingere le sue tele. Aveva sempre dichiarato
che non si sarebbe trascinato sul campo come quei suoi colleghi che non accettavano
di uscire di scena e fu di parola, prendendo tutti in contropiede come era
abituato a fare con le difese avversarie. Esattamente come aveva fatto qualche
decennio prima il suo grande Presidente, Giampiero Boniperti, che una volta
deciso di appendere gli scarpini al chiodo dichiarò che non si vedeva nell’invecchiare
sul rettangolo verde. Michel Platini: in teoria regista ma in pratica anche
straordinario goleador, laureatosi per tre anni consecutivi capocannoniere
della nostra serie A. Così come Dio esiste come Padre, Figlio e Spirito Santo ed
è quindi presente a noi in tre modi differenti, Michel è stato mezzala, regista
e centravanti. Un fuoriclasse di quelli capaci di cambiare la storia di un
intero sport. Elegante, aggraziato nelle movenze, raffinato nel tocco nobile,
elitario, capace di disegnare parabole delicate come il vento, così come di
capace di distendersi in strabilianti e sconfinate cavalcate. Un repertorio il
suo fatto sia dal passaggio breve che dal lancio lungo e millimetrico, di un
pensiero rapido e di una capacità di anticipazione che gli consentiva di segnare
in ogni modo: di destro, di sinistro, di testa, di classe, di potenza, su
calcio da fermo. Platini con la maglia della Juventus giocò 222 partite
segnando 103 reti tra campionato e coppe. Vinse due scudetti, una Coppa Italia,
una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa, una Coppa dei Campioni, una Coppa
delle Coppe, un Mundialito e tre volte il Pallone d’Oro. Più che sufficiente
per entrare nella leggenda. Le Roi, oltre a tutto ciò, ha avuto l’intelligenza
di capire che la Juventus non era solo una squadra di calcio ma un vero e
proprio fenomeno sociale, con una cultura e uno stile che ha da sempre
contraddistinto i suoi dirigenti, allenatori e giocatori. Con la stessa consapevolezza
di aver fatto la storia di un club unico, fatto di squadre indimenticabili che
hanno scritto alcune delle pagine più belle e importanti del calcio mondiale. La
cognizione che Juventus era ed è sinonimo di passione e amore. La passione che accomuna
i milioni di tifosi bianconeri sparsi per il mondo e l’amore per quella maglia
bianconera che significa storia del calcio. Quel bambino che sognava di
diventare come Pelè e invece il destino lo ha portato ad essere Platini. Un fuoriclasse
con un’anima istrionica, un po’ snob e viziata, un perfetto condensato di
sarcasmo, acume, estro, originalità e talento. Signore e signori, Michel Le Roi
Platini. Chapeau.



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