L’EDITORIALE DI FILIPPO VAGLI: LA SCHIZOFRENIA DEL POPOLO BIANCONERO. SEGNO DEL TEMPO IN CUI VIVIAMO.
Umberto
Eco affermava che i social media hanno dato diritto di parola a legioni di
imbecilli.
Soggetti che
prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino ma senza danneggiare la
collettività dal momento che venivano subito messi a tacere.
A
differenza di ciò che accade oggi, quando essi hanno lo stesso diritto di
parola di un Premio Nobel.
Altri
preferiscono mettere in luce i vantaggi di questi nuovi modi di comunicazione e
quindi la loro capacità di mettere in contatto persone e di offrire gratuitamente
una serie infinita di informazioni fruibili da chiunque.
Probabilmente,
come spesso accade, la verità sta nel mezzo.
Quel che
è certo è che i social media sono diventati parte integrante della nostra
quotidianità.
Vere e
proprie autostrade digitali che impattano prepotentemente sulle modalità di
accesso a notizie e informazioni.
Oggi, a
differenza di un tempo, non ci affidiamo più solo ai media tradizionali, ai
giornali, alla televisione, potendo accedere a una vasto repertorio di fonti e punti
di vista diversi attraverso le varie piattaforme Internet.
Con un
effetto che inevitabilmente influenza anche la narrazione sportiva.
I principali
utilizzatori dei social sono i giovani.
Soggetti questi ultimi che difettando sia in memoria che in pazienza, si stanno facendo convincere che l’attuale condizione della Juventus sia una catastrofe, una sciagura, un orrore.
Una realtà da cui non si vede una via di uscita.
Giovani che hanno i loro profeti in Influencer
senza arte né parte che teorizzano non solo il bel gioco, ma con vittorie da
ottenere senza trentenni (troppo vecchi), solo con i giovani.
Professori al microfono che quando giocavano
non sapevano fare tre palleggi
con le mani che rifiutano a priori la possibilità di difendere un uno a zero,
perché roba da preistoria.
Quello che conta è sempre farne un gol in più.
Oracoli che sostengono come sia preferibile
avere qualche punto in meno pur di vedere calcio.
Punti di vista, per carità.
Ma allora sarà necessario sostituire lo
storico motto di Bonipertiana memoria "Vincere
non è importante ma è l'unica cosa che conta" con "Vedere il bel
gioco non è importante ma è l'unica cosa che conta".
Un’onda che sta lambendo anche qualcuno che
ha più di un capello bianco in testa.
Ma d’altra parte a causa del continuo
martellamento di chi (ad arte) narra che la Juve è morta, che ha perso la sua
identità, che le colpe sono tutte e solo di un persona (l'allenatore), non è
così difficile poi convincersi che possa essere effettivamente così.
Certo, la Juve sta vivendo un periodo di
grande difficoltà.
Non è utile negare la realtà mettendo la
testa sotto la sabbia come fanno gli struzzi
Nello stesso tempo è altresì intellettualmente
scorretto affermare che Madama sia alla rovina più assoluta, come in molti vorrebbero
farla passare.
È dal lontano 1973 che seguo la Juventus, con
i suoi up e down.
Sono partito dalla Juve di Zoff, Spinosi,
Morini, Salvatore, Longobucco, Causio, Capello, Cuccureddu, Furino, Anastasi,
Altafini, Bettega.
Poi c’è stata la grande Juve del Trap,
formata dai sei Campioni del Mondo più Platinì e Boniek, ma anche quella
“bolsa” di Rino Marchesi.
Quella “operaia” di Dino Zoff, che doveva
battersi ad armi impari con il Milan stellare di Silvio Berlusconi e quella “champagne”
di Gigi Maifredi, arrivato a Torino per portare il calcio moderno con la ma
mission di cancellare il football del “dinosauro” ex portierone bianconero.
Quella del tentativo di restaurazione, con il
Trap e Giampiero Boniperti richiamati al capezzale di una Juve a cui il
tentativo di diventare bella aveva fatto molto male così come la straripante Juve
di Marcello Lippi.
La sfortunata Juventus di un giovane Caretto Ancelotti
in panchina e quella d’acciaio di Fabio Capello che (pur fallendo in Europa) per
abbatterla si inventò calciopoli.
Quella dell’inferno della “B”, con Deschamps
in panchina e quella del primo tentativo di rinascita con gli anni in grigio
scuro di Ranieri, Ferrara, Zaccheroni e Delneri
La “primavera” di Antonio Conte, con la
cavalcata vincente proseguita da Massimiliano Allegri e terminata con lo
scudetto di Maurizio Sarri.
Nove scudetti che hanno alterato la
percezione di chi ha vissuto solo quest’epoca fatta di grandi trionfi e di
poche sconfitte. Perché nel calcio, come nella vita, esistono le discese e le
risalite. Qualche volta si vince, altre si perde, altre ancora si pareggia.
Senza dimenticare che nello sport vincere non rappresenta la regola ma
l’eccezione.
Oggi tutti noi che amiamo la Juventus siamo alterati,
inquieti, nervosi, stizziti da questo momento di magra.
Ma chi ha già visto succedere ciò molteplici volte,
è altrettanto tranquillo, calmo, equilibrato, perchè certo che la Juve tornerà a vincere.
La Vecchia Signora di oggi è un club che si
sta risistemando al termine di un’epoca, sì di grandi vittorie, ma anche di
scelte folli così come di colossali errori che sta pagando con gli interessi.
Lo sta facendo sulla logica della sostenibilità,
sistemando i conti, tagliando rami secchi, investendo sui giovani, dopo essere transitata
da una tempesta giudiziaria senza precedenti.
E, nonostante tutto, è terza in classifica. Anche
se per taluni sembra stia passando il periodo peggiore della sua storia.
E allora, qualcuno, sull’altare del rinnovamento,
della modernità, sta urlando di buttare via il bambino con l’acqua sporca, con
il rischio di perdere qualcosa di prezioso.
Senza fare il gufo iettatore, sarebbe opportuno
tenere in mente i corsi e i ricorsi storici del filosofo, storico e giurista
Giambattista Vico, i quali ci dicono che il “sogno” Thiago Motta rievoca con
terrore l’esercizio onirico di Maifredi del 1990.
Tra i due personaggi esiste una differenza
abissale, su questo non ci piove.
L’italo brasiliano è stato calciatore del Barcellona
vincendo due campionati spagnoli, due Supercoppe spagnole e una UEFA Champions
League. Poi dell'Atletico Madrid, dell'Inter, conquistando con i nerazzurri un
campionato italiano, due Coppe Italia, una UEFA Champions League e un mondiale
per club. Ed infine del Paris Saint-Germain club quest’ultimo con cui vince cinque
campionati francesi, cinque Coppe di Lega francese, quattro Coppe di Francia e
cinque Supercoppe francesi.
Il secondo, da calciatore fece ben poco:
giovanili nel Brescia, brevi esperienze nel Rovereto e nel Portogruaro e poi impiegato
in un’azienda che vendeva champagne.
Due retroterra nemmeno paragonabili tra loro.
Analoga però l’origine filosofica che potrebbe
portare la Juve a scegliere come nuovo allenatore l’attuale tecnico del Bologna
Nelle prossime settimane avremo un orizzonte
più chiaro rispetto ad oggi dove sono i rumors più che le notizie a farla da
padrone
Credo sia sbagliato essere contro le novità a
prescindere.
Nel 1994 ad esempio, pagò il cambiare dal “vecchio”
Trapattoni al “nuovo” Lippi.
Ma nello stesso tempo sono certo che il
risorgimento di Madama ci sarà a prescindere dal fatto che sulla sua panchina
siederà un allenatore giovane e moderno piuttosto che uno più anziano e
tradizionalista.
La Juve tornerà a vincere e lo farà grazie al
DNA fornitogli dai suoi padri fondatori.
Perché come urlò Francesco Repice ai
microfoni di Radio Rai il 28 aprile 2018 al gol partita di Gonzalo Higuain in una
radiocronaca da brividi in occasione di un emozionante Inter Juventus, “LA
JUVENTUS NON MUORE LETTERALMENTE MAI"
Filippo Vagli



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