IL CALCIO CHE AMAVAMO: UN SOGNO CHE RISCHIA DI SPEGNERSI

 


Di Filippo Vagli

La partita di Serie A che si giocherà a Perth, in Australia, tra il Milan e il Como il prossimo 20 febbraio, come ha denunciato la Curva del Como, è uno specchio doloroso di un calcio che sta smarrendo la sua anima. Quella scena è la fotografia di un sistema marcio, un sistema che mette il business davanti a tutto e rischia di cancellare la bellezza del gioco che abbiamo amato da bambini. Non è solo una questione di numeri o di soldi: è una ferita profonda per chi il calcio l’ha vissuto con il cuore. Quel calcio che ci faceva sognare, che ci univa nelle domeniche al campo, che ci insegnava valori come la lealtà, la fatica, la gioia di tifare insieme. Ora, tutto sembra ruotare attorno a contratti, sponsor, mercati internazionali e partite vendute come prodotti da svendere all’asta globale. Ma la responsabilità non è soltanto di chi prende decisioni in fretta per il profitto. È una catena in cui sono implicati giocatori, allenatori, procuratori, presidenti e perfino politici, tutti troppo spesso asserviti a logiche che svuotano di significato il calcio. È una rete difficile da districare, che si allunga dalla scrivania dei grandi dirigenti fino alle tribune vuote o disilluse. E chi ci rimette davvero sono i tifosi. Noi. Quelli che cantavamo e vibravamo insieme sotto la pioggia e il sole, quelli che avevano la pelle d’oca per un gol o un gesto di sportività. Siamo noi che vediamo il calcio trasformarsi in un prodotto senz’anima, lontano da quel sogno semplice e puro che ci ha fatto innamorare del gioco. Il calcio dovrebbe tornare a essere casa nostra, un luogo di emozioni condivise e di appartenenza sincera, non una vetrina per il profitto. Recuperare questo sogno non sarà facile, ma è l’unica strada per restituire dignità a uno sport che merita di essere amato per quello che è, non per quello che si vende. Perché alla fine, ciò che davvero conta non è il business, ma il cuore di chi guarda, tifa e crede ancora nel calcio.


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