UN CALCIO DA BARZELLETTA: LA FARSA ITALIANA TRA BELLE PAROLE E SQUALLIDA REALTÀ
Di Filippo Vagli
Quante volte ci
hanno anestetizzato con il mantra del “calcio italiano deve ripartire dal
basso”? Dalla strada, dicono. E poi, centri sportivi all’avanguardia per i
giovani, dirigenti nerd che mixano i big data con il “fiuto” da talent scout…
Un film trito e ritrito, una favola pronta a trasformarsi in letargo
collettivo. Ma vediamo la realtà nuda e cruda: l’Italia è e resta il paese
della raccomandazione, della “porta amica”, del figlioccio fortunato che magari
non sa neanche calciare ma gioca per diritto di nascita o per qualche sponsor
occulto. La meritocrazia? Un concetto fumoso, roba da serie tv americane. Qui
se sei senza santi in paradiso, senza investitori amici o papà CEO, puoi anche
essere Messi 2.0: non muovi foglia. Poi ci sono gli allenatori dopolavoristi,
veri nemici nascosti del talento. Quelli che ti insegnano a fare le diagonali
ma ti ammazzano qualsiasi slancio creativo. “Non perderla così, che poi ti
sgrido” — come se il calcio fosse una catena di montaggio senza fantasia. Per
ogni bambino con speranze, ce ne sono mille invisibili, smarriti, dimenticati
nel limbo della mediocrità grazie a questo sistema marcio. E il risultato?
L’unica certezza è la sconfitta annunciata. La Nazionale che non va ai
Mondiali? Non uno scherzo, ma un semplice riflesso della nostra incapacità
strutturale. Cambierà qualcosa? No, perché qui si continua a parlare tanto, a
riempirsi la bocca di buoni propositi, mentre la verità la sappiamo tutti:
l’Italia, sportivamente parlando, è un paese senza speranza. Quindi, a chi
serve tutto questo teatrino? A chi continua a propagandare rivoluzioni mai nate
e finte rivoluzioni mediatiche? Forse solo a chi vuole mantenere lo status quo,
comodo e comodo assai. Basta con le chiacchiere, spegniamo il computer e
torniamo alla strada? Magari un giorno sarà tardi anche per quello.
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